Tuesday, December 17, 2013

Natale

Mi svegliavo sentendo il rumore di pentole arrivare dalla cucina. La "macchina da guerra" di mia madre si era gia' messa in moto, con le mie zie a fare da aiutanti in quel ruolo di "sous chef" che era il massimo cui potessero aspirare.

Nel letto "grande", mi ritrovavo con le mie cugine e non vedevo l'ora di alzarmi per un'altra giornata di felicita'. Allo stesso tempo non volevo altro che restare li', aspettando l'arrivo di mia madre che veniva a coccolarmi, a infilarmi qualsiasi cosa per "non prendere freddo" e dirmi "Buon Natale".

La sera prima era stata magica come al solito: di risate e di pacchetti sotto l'albero che sembravano non finire mai. E un cestino di noci e mandarini e pandoro e zeppole, li' sulla tavola, quella che per tre giorni non era mai sgombra o in ordine.

Il pranzo di Natale durava fin quasi la sera quando poi le nostre mamme ci chiedevano cosa volevamo mangiare per cena.

Spesso dopo mangiato, ci si metteva a cantare, passando da Bianco Natale a Bandiera Rossa come fosse niente. Come fossimo noi. I Vitaliano, mischiati con i Vitale, i Palladino, i Ruggiero e i fidanzati, le fidanzate, gli amici e le amiche che apparivano e sparivano dalle nostre scene natalizie. I Vitaliano: quelli capaci di conciliare il comunismo e Dio, l'ateismo e la messa di natale, le piccole tredicesime con la capacita' di regalarci la felicita'. Quelli che si scrivevano biglietti che facevano luccicare gli occhi; che tiravano fuori, puntualmente, le lettere che mio padre aveva scritto a mia nonna dal collegio, piene di dolore e rabbia, per ricordarci che c'era stata la fame e la guerra e lo strazio e che noi eravamo fortunati. I Vitaliano, quelli rivoluzionari perche' capaci di mettere in pratica i dieci comandamenti con l'approvazione di Marx e Lenin e Che Guevara.

In sette anni sono stata a Natale con loro, con la mia famiglia, solo una volta. Credo che questa sia stata una delle prove piu' difficili che mi sono trovata di fronte.  Eppure, ogni anno, a Natale, saperli insieme mi basta. Immaginarli intorno al tavolo a far casino, a parlarsi uno sull'altro, a discutere di politica, a scambiarsi regali, affetto e madarini e noci e pandoro e lacrime e' tutto per me. E' il senso di una storia che continua, di un posto al quale apparterro' per sempre, di una tana nella quale potro' rifugiarmi ogni volta che ne avro' bisogno.

So che parte di cio' che sono, della mia forza, della mia energia e dei miei sorrisi viene dall'incanto di quei Natali che la famiglia ha costruito per noi, per anni, come il migliore degli architetti. Con mano felice. Ecco perche' questo, nonostante la solitudine, le preoccupazioni o le malinconie, resta per me il periodo piu' bello dell'anno. Quello in cui accadono i miracoli.


Wednesday, November 27, 2013

Ringrazia e dona - Thank and giving

A volte, persino per me, guerriera alla corte dell'ottimismo, trovare un sorriso e' difficile. Racimolare l'energia per alzarsi dal letto, quella per vestirsi, uscire, salutare, sorridere, lavorare, arrabbiarsi, dare pillole, preparare pasti, passeggiare cani, allenarsi, pedalare, fare conti.
Difficile, pesante, lacerante, dolorante.

Cosi piu' facile sarebbe, mollare tutto. Soprattutto quando una pioggia senza fine ti sferza senza nemmeno darti la speranza di non sentire piu' i piedi bagnati e l'acqua fredda che scivola nel collo.

Difficile.

Ma, proprio allora, indispensabile. Perche' fare tutto cio' quando e' facile, quando hai il vento in poppa e il sole alto in cielo, e' troppo facile. Non e' un fatto di vita. E' un fatto di quotidianeita'.

Allora bisogna chiudere gli occhi e pensare. Pensare a un anno indietro e a tutti i passi in avanti che in quell'anno, con fatica e senza, si sono compiuti.

E allora, con gli occhi chiusi, mi arriva la magia del silenzio della mia casa, dove persino il borbottio leggero dell'umidificatore sembra un gran casino. Dorothy sul tappeto vicino al divano, respira quell'aria al mentolo e mi sembra piu' tranquilla. Guardo il suo petto sollevarsi e abbassarsi e mi chiedo cosa combina quel cuore malato che si ritrova. Quel cuore che sono determinata a rendere felice e gioioso fino all'ultimo. Senza stanchezza.

Un anno fa era tutto diverso. E tutto in peggio. Certo il suo cuore lo pensavamo ancora intatto ma entrambi, il mio e il suo, erano meno felici, piu' tormentati. La nostra casa era piena di ombre; quelle di una presenza negativa. Come tutte quelle di chi si e' creduto molto amico. E non c'erano sorrisi, non c'era serenita' e non c'era sollievo. Mai.

Oggi siamo provate ma tuttavia serene. Tuttavia insieme, tuttavia con la speranza di un domani e di un altro e di un altro ancora. E abbiamo di piu' e non di meno. Piu' amici, piu' amore, piu' saggezza, piu' ricordi, piu' sorrisi, piu' felicita'. Nonostante tutto. Nonostante sia maledettamente difficile vederla quando sei raggomitolata sul tuo dolore e tutto cio' che vedi sono le punte dei tuoi piedi.

Domani e' il nostro settimo giorno del Ringraziamento. Del Ringraziare e del Dare. E io non posso non ringraziare di essere qui, un anno dopo, migliore e piu' felice di un anno fa.

E, riaprendo gli occhi, mi guardo intorno. Nella finestra di fronte vedo accesa la prima luce della Manora. Giorno del Ringraziamento e giorno di Hannukah. Giorni di luci. Che rischiarano anche il mio dolore e mi riconnettono con tutta la vita che ho dentro di me. Che avevo da sempre ma che avevo perso e qui ho ritrovato. New York per altri e' un fatto alla moda. Per me e' stato il sentiero che mi ha fatto ritrovare. E non si puo' che essere grati per questo.

Wednesday, November 20, 2013

L'assenza di solitudine


Nemmeno il fatto che alla fine saro' io, e solo io a prendere decisioni importanti per la vita di Dorothy, mi fa sentire sola. Ci fa sentire sole.

Io sono tutto per lei e lei e' immensamente tanto per me.

Ma avremo fatto qualcosa di buono al mondo perche' non siamo sole e l'amore che ci circonda in questi giorni e' commovente.

Lei, Dorothy, di buono ha tutto. E ho visto persone che non amano i cani sciogliersi di fronte ai suoi occhi dolci e alle suo orecchie grandi, davanti a quel suo voler giocare come avesse sempre sei mesi e al suo essere educata, discreta, coccolona.

Amici vengono a trovarci.

Dall'Italia e' una levata di scudi pieni di generosita' e amore. A piene mani. Senza stanchezza. Senza pausa

E dalla Germania, dall'Inghilterra, dalla Spagna.

 E qui. I miei vicini di casa mi hanno offerto di tutto. Mi abbracciano ogni volta che le lacrime vogliono uscire fuori. Mi incoraggiano e mi sostengono.

Poche volte nella vita mi sono sentita sola. Da quando Dorothy e' con me, potrei dire mai.

In questi giorni, sono certa che la solitudine non esista

Se non per coloro non dotati di quel muscolo che ci fa soffrire, ridere, innamorare e sentire vivi. E che a volte si ammala. Ma e' il centro. E' il sale. Il nostro cuore.

Thursday, November 14, 2013

o' sai com' fa o' cor'

Il soffio nel tuo cuore e' - istantaneamente - una frattura nel mio.

Non ho capito niente. Dopo quel volto allarmato nel riferirmi quelle parole -  "su una scala da uno a sei, e' quattro" - ero solo concentrata a mantenermi in piedi. A ricacciare le lacrime. A respirare per me e per te che affannavi.

Ho chiuso la porta di casa. Ti ho preparato la cena. Mi sono tolta le scarpe.

E mi sono presa il volto fra le mani. Singhiozzando in silenzio. Per non farti sentire. Per non disturbare il tuo pasto.

Quattro su sei. Rischio infarto. Questo l'ho capito. Il resto no.

Ma ho capito che c'e' un problema da affrontare e da superare. Un'emergenza.

Serve calma. Concentrazione. E soldi. Questo e' uno dei pochissimi momenti in cui New York pesa.
I soldi.

E un cuore in subbuglio. Anzi due. Il tuo e il mio. Amore della mia vita.

Abbiamo sorvolato l'oceano io e te. Anche quello della mia solitudine, delle mie paure, della mia disperazione.

Ora superiamo questo. Io e te. Qualsiasi sara' la destinazione.

Dorothy ed Angie. Tu ed io. Noi e i nostri cuori in subbuglio.


Saturday, November 9, 2013

Incontri





E allora sapro' che mi scoppiera' il cuore

Quando ti vedro'
in attesa
sulla panchina
sotto al gazebo piccolo
di fianco al lago, nel parco.
Quello dei baci rubati
delle sciocchezze d'amore sussurrate
dei "per sempre" sprecati con generosita'.

Seduto starai immobile
per dominare il caos
dello straordinario
il tumulto dei sensi
il rumore dei pensieri che corrono all'indietro
ripercorrendo una vita fa
mille frammenti di esistenza
di cibo mangiato con le mani
notti illuminate dalle parole
udibili solo da noi e dal mare
mattine silenziose di sale
calore di lacrime
e teste sul cuscino
a segnare una resa.

E allora sapro' che mi scoppiera' il cuore.

Quando arrivero' vicino
e sapro' che ero gia' vicina
da sempre
per sempre

E poggero' la testa sulla tua spalla
come un minuto prima
come ieri
come dieci anni fa
come fra noi due
sempre

E saro' lieta che il mio cuore sara' scoppiato
perche' cosi' non ne sara' rimasto niente
quando ti volterai
per avviarti lentamente su quella salita
stancamente
inevitabilmente
verso la tua quotidianeita'
cosi' poco simile alla vita.

Senza di me.

Friday, November 1, 2013

Fame

La conosci tu la fame?
Quella che ti fa lasciare, a 19 anni, il "posto" di lavoro perche' vuoi studiare?

La conosci tu la fame?
Quella che ti fa laureare con 110 e lode anche se ti sei svegliata alle 5.30 per gli ultimi 4 anni per andare a lavorare e poi, tornare a casa, e rimetterti sui libri mentre gli altri, quelli della tua eta', escono a divertirsi?

La conosci la fame?
Quella che ti tiene sveglia la notte perche' sai che dirai di no a quell'infame richiesta che ti farebbe continuare ad apparire in tv, truccata, aggiustata e brava? Perche' ero brava.

La conosci la fame?
Quella che ti fa ricominciare da capo, da un'altra parte, umilmente e ingoiando offese?

La conosci la fame?
Quella che ti fa bruciare le mani mentre restituisci dei soldi sapendo che con quello restituisci alla vita un'altra occasione sognata, desiderata e meritata?

La conosci la fame?
Quella che ti svilisce, ti abbrutisce, ti intristisce e ti toglie ogni voglia di vita mentre non sai piu' nemmeno cosa rimproverarti perche' non ti consideri nemmeno degna di un rimprovero?

E la fame di una casa lontana, della solitudine, del frigorifero vuoto, di un'appartamento con i topi, di un quartiere malfamato, di neve al ginocchio al mattino presto nel buio di una mattina che per te e' ancora notte fonda?

E la fame della malinconia? Di persone alle quali non hai potuto nemmeno dire addio? Di lacrime che non si fermano e iniziano a scendere senza vergogna in metropolitana? Di genitori che ti mancano? Di nipoti che crescono senza i tuoi sorrisi? Di vita alla quale non appartieni piu'?

Quella fame che ti fa rialzare ogni mattina, sempre piu' stanca, piena di paure, piena di dolore, piena di angoscia. Eppure in piedi. A testa alta.

Quella fame che ti fa fare il passo dopo. E sorridere. E chiedere aiuto, E appoggiarti ad una spalla per piangere. E correre. E tirare pugni. E respirare. E ricercarti. Ritrovarti. Riabbracciarti. Perdonarti. Coccolarti. Guarirti.

Quella fame che ti fa diventare ironica, sfrontata, strafottente, spudorata, una tigre. Eppure piena di immensa umanita'.

Quella fame che questa citta' ha sentito e aumentato e sfamato e poi aumentato ancora e sfamato ancora.

La fame.

Perche' se non la conosci, allora si, puoi dirmi che non ce l'ho fatta. Perche' non avevo le qualita'.

No. Non avevo le qualita' e non ce l'ho fatta. Non ad essere come te.

Io non avevo qualita'. Avevo ed ho, fame. Una fame disperata di vivere

Ed in quello ce l'ho fatta. E tu e tutti quelli come te, avete perso. E non lo capirete mai. Ed il bello e' che a noi vivi (e siamo in tanti) non ce ne importa nulla. 

Wednesday, October 23, 2013

Certe notti

Certe notti mi svegliavo ed eri al mio fianco.
Tutto il resto era semplicemente irrilevante.
Certe notti mi svegliavo e non c'eri piu'.
Tutto il resto era semplicemente irrilevante.

Certe notti avevo paura. Delle ombre e della luce che le creava
Tutto il resto non riuscivo a vederlo.
Certe notti ho avuto coraggio. Di dormire nel buio
Tutto il resto riuscivo finalmente a non vederlo.

Certe notti pensavo a come comprare da mangiare
pagare le bollette
l'affitto
Ed ero stanca di pensare
Certe notti non avevo piu' conti da pagare
nemmeno con l'amore
E potevo riposare

Certe notti pensavo a quell'aereo che mi avrebbe portato a New York
Ne studiavo il tragitto
Avvertivo il mio fallimento
A restare ferma
Certe notti mi sveglio e vedo la luce filtrare dalle inutili veneziane
intravedo i palazzi alti
le mille finestre
Il viaggio e' compiuto
Sono a casa

Certe notti ho guardato il tuo profilo al buio
chiedendomi il perche' di tanto amore
Certe notti ho ripensato al quel profilo
avendo tutte le risposte

Certe notti mi chiedo cosa faro' da grande
Certe notti penso intanto a diventare grande

Certe notti scrivo perche' e' una malattia
Certe notti leggo perche' e' la cura

E certe notti, mentre il sonno sta per prendere il sopravvento,
giusto un attimo prima
con la guancia che amoreggia con la morbidezza del cuscino
io, inaspettatamente, sorrido.
E il buio si rischiara.
E non c'e' altro da dire
Se non continuare a vivere

Tuesday, October 15, 2013

Baci



Il primo bacio fu quello che mi insegnasti tu, dietro il cancello di scuola, di pomeriggio. Mi insegnavi e io pensavo solo "che culo che uno bello come te voglia baciare proprio me". Fu il primo e il secondo e molti altri. I baci dei tredici anni che diventano sedici e tu sempre piu' bello e sempre piu' impossibile. Ma il primo bacio fu il tuo e fu come una cena cinque portate da ABC Kitchen. Il mio ristorante preferito.

Il bacio salato fu ogni bacio dato nel tempo estivo, che fu sempre tempo lungo e spensierato. Sale di bagni di giorno e bagni di notte, di luce di sole e luce di falo'. Baci di sale e di sole. Baci a tempo. Il tempo dell'estate che un acquazzone portava via e ci si salutava, con un bacio, dicendosi "ti scrivero' ogni giorno". Lettere che mai arrivarono, ma la cui assenza non cancella quel sapore di sole e di sale e di sabbia e di spensieratezza.

Il bacio mai dato fu quello che tu mi negasti. Te che per primo pensai di amare. Ma non pensando lo stesso, me lo negasti. E oggi, che siamo amici e che non penso di amare ma amo, te lo "rinfaccio" di continuo. Per ricordarti che c'e' sempre, se non ce ne fossero altre, una ragione per essere felici: perche' dobbiamo ancora baciarci.

Il bacio inaspettato fu quello di un'alba che era gia' quasi mattina in una Napoli bella da morirne, bella in maniera oltraggiosa perche' piena di speranze e di senso rivoluzionario. In una curva di Posillipo la macchina si fermo' per farmi scendere dopo una notte di lavoro elettorale, chiacchiere politiche, sigarette e cornetti caldi e, mentre stavo per darti un bacio sulla guancia, ti girasti, di proposito e mi prendesti le labbra. Arrossi' all'idea che gli altri se ne fossero accorti ma per fortuna mi ignoravano. Mi facesti l'occhiolino e io me ne andai. Ne seguirono altri ma molto molto dopo. E nessuno lo seppe mai.

L'ultimo bacio non fu un film ma quello fra di noi, il giorno che andai via da casa tua. Ci sentiamo dopo - mi dicesti e mi baciasti e sapevo che non ti avrei rivisto piu'. Ma non c'era altro da aggiungere. Niente da ribadire. Solo un amore immenso che non sapevamo gestire. Noi due, adulti senza sapere di esserlo ci salutammo come due bambini che si salutano dopo un pomeriggio di giochi qualsiasi. Quello prima di una separazione. Di tutti i baci che ci siamo dati, quello fu quello piu' pieno d'amore.

Il bacio piu' triste fu quello che diedi ai miei genitori sei anni fa. Fu pieno di lacrime e cose non dette. Pieno di dolore. Un dolore cupo e inconsolabile. Che non siamo riusciti ancora a consolare. Anche se ora, ogni volta, quei baci fanno un po' meno male. Sopravvivemmo a quello. Tutti gli altri sono come carezze su pelle indolenzita.

Il bacio romantico fu quello di una notte newyorchese piena di freddo e solitudine. Il primo inverno e quel freddo che non sai gestire. Proprio come la solitudine, la paura, la tristezza e lo sgomento. In quel bar capitammo vicini, conoscevi qualche parola di italiano, io molte di inglese. Il drink divento' una cena di ore durante la quale mai smettemmo di parlare. E poi uscimmo fuori, in una notte deserta e aveva iniziato a nevicare. La mia prima neve. Rimasi ferma come un bambino che incontra Babbo Natale a guardare quei fiocchi che mi ricoprivano e d'improvviso senti' la tua voce dirmi "ti telefono" - "Ok" dissi io. Non me ne accorsi ma in un attimo ero li', proprio come nel piu sdolcinato film americano, travolta da un bacio lunghissimo. Un solo bacio. Non ti ho piu' rivisto. A volte penso che sia stata questa citta' a baciarmi per dirmi di smetterla di soffrire. E ho ricambiato.

E poi c'e' il bacio di ieri che non e' ieri ma sembra ieri perche' vicino nel tempo. Vicino che lo senti ancora sulle labbra eppure gia' troppo lontano per non volerne un altro. Il bacio della bellezza. La tua. Che hai attraversato il deserto e potevi non farcela. E invece sei li, bella come non credevi nemmeno possibile, ma come quel bacio ti ricorda che sei e che sei sempre stata. Il bacio di ieri. Quello che rivorresti oggi e domani.

I baci. Che a parlarne non si puo' non essere "sdolcinati". Ma che a non volerlo essere, si resta con l'amaro in bocca. Quello che io non ho. Io ho baci che sono come nenie nelle notti di insonnia e vento sul viso in giornate d'estate. Sono neve e rughe. Sono orecchini persi e poi ritrovati che ricompongono il paio e ti danno un senso.


Sunday, October 13, 2013

Adriana

Non so perche' oggi mi e' tornata in mente Adriana, mentre camminavo, su tacchi altissimi e vestita super chic lungo Columbus Avenue.

Potendo scegliere un posto per ricordarmi di Adriana, quello era il meno adatto.

Adriana era la mia proprietaria di casa a Napoli. La prima. Aveva una casa grande, con tante stanze e in ognuna ci metteva due ragazze. Eravamo dieci o undici piu' lei. Lei viveva per lo piu nella sua stanza e guardava la tv per ore. A volte si preparava e usciva. Spesso la sentivamo cantare.

Adriana faceva il mestiere piu' antico del mondo e in quella casa ho imparato le verita' basilari della mia vita. Anche se lo avrei scoperto molti anni dopo.

Adriana non ci permetteva di portare giovanotti a casa e nemmeno lei ne portava. Per questo un giorno ci fu grande agitazione in casa quando una delle ragazze, quella tutta casa e chiesa, con sempre la vestaglia sopra i vestiti e una spilla da balia che gliela chiudeva fino al collo, arrivo' trafelata in cucina e anuncio', con fare allamato "signora c'e' un uomo alla porta". Noi seguimmo Adriana incuriosite mentre si metteva uno scialle addosso e, con fare da baronessa, disse "signori' e fatelo salire" (la casa era a due piani). Quando quello arrivo' nel soggiorno eravamo tutte li eccitate di vedere "l'uomo". Era basso, magro e con un paio di baffetti anti sesso. Adriana arrivo, lo guardo' e gli disse "ue' cia' mario" - poi con viso disgustato e pieno di rimprovero si volto' a guardare la ragazza con la spilla da balia e le disse con un eloquente gesto della mano "e chist' era l'ommo?"

Un'altra volta avevo bisogno di un'iniezione e Adriana si offri' di farmela e mi chiese "signori', la facciamo alla francese?" - io arrossi' pensando chissa' che e lei mi spiego' che "alla francese" era a cavalcioni sulla sedia cosi il gluteo era rilassato e sentivo meno dolore. L'iniezione fu innocua a parte l'umiliazione di aver avuto come pubblico tutte le altre ragazze di casa, curiose di scoprire tutto su quella posizione.

Un giorno, in pieno inverno, ero in cucina a farmi un te'. Faceva un freddo cane in quelle case di Napoli e mi riscaldavo come potevo. Aspettavo il te' e ripetevo. Avevo un esame. Adriana usci' dal suo boudoir e mi disse 'Signuri' ma vuj che studiate a fa', vuje tenit nu' tesoro mmiez' e cosce".

Qualche volta a casa veniva Susy, amica di "lavoro" di Adriana. Susy era grassa e con delle tette che sembravano uscite direttamente da un film porno. Vestiva come una prostituta. E si truccava anche cosi. Era l'opposto di Adriana. Un giorno erano in cucina a farsi un caffe' e lei, con estrema offesa e malcelato dolore, raccontava di un cliente che l'aveva vista e non l'aveva voluta piu'. "Adria' - disse Susetta con le lacrime - perche' io poi ce l'ho detto che se voleva quelle secche doveva tenere un poratafogli tanto". Susy era simpatica e un giorno mi disse, vedendomi tutta imbabuccata "signuri' ma tenit' fridd? perche' io ncuoll sto bona ma sott' sto sempre caver"

Negli anni - queste pillole di saggezza sono diventate lezioni per me, tipo che l'apparenza inganna e che un paio di baffi non fanno un uomo; che nella vita e' importante provare posizioni e cose diverse anche se sono fuori dalla nostra comfort zone, perche' possono farci smettere di stare male o - anche - farci stare benissimo; che io sono tenutaria di un tesoro: non l'ho mai sprecato ne' per soldi ne' per potere e anzi l'ho reso piu' prezioso con la ricchezza della mia intelligenza, del mio cuore e della mia anima. Chi ha messo le "mani" su quel tesoro e' stato fortunato. Ma non sono stata mai bottino da derubare e di cui fare scempio. Il tesoro e' intatto e splende di pietre preziose. Se vuoi di piu' lo deve ottenere e solo allora puoi aspirare "a quelle secche", mai prima e mai gratis. La vita, la bellezza, la felicita' costano assai. Assai. E non tutti se le possono permettere.

Una notte, una  parte di noi ragazze resto' a dormire fuori. Io nello specifico dormi' in una vasca da bagno con un ragazzo alto alto. Non successe nulla. La cosa piu' eccitante fu che muovendosi urto' contro la fontana e quella si apri'. Quando tornammo a casa, Adriana ci disse che avevano chiamato i nostri genitori e lei aveva detto che stavamo ancora dormendo.

Ci salvo' il culo e non volle nemmeno un grazie. "Mo' andate a studia' pero' ", ci disse scacciandoci via come gallinelle.

Non e' vero che quello non era il posto giusto per ricordarmi di Adriana. Era giustissimo. Perche' se sono sopravvissuta qui lo devo un po' anche a lei, per avermi insegnato a "campare"

Sunday, September 29, 2013

La grande disperante bellezza

Ho deciso, questa volta, di arrivare a Roma come Angie. Quella di New York.
Di guardarla con gli occhi un po' bambini dell'americano che arriva qui e ha nelle orecchie le canzoni famose italiane storpiate dall'accento alcolico di Dean Martin o Frank Sinatra.

Sono arrivata a Roma come Angie. La turista. Che non deve avere a che fare con nulla che sia vita quotidiana, politica, rogne beghe file. Realta' insomma.

La bellezza di Roma mi ha trafitto il cuore dopo venti minuti. L'ho percorsa, attraversata, calpestata, goduta, accarezzata come la schiena di un amante, ascoltata nel suo silenzio del mattino, respirata nel suo odore di glicini e orchidee.

La grande, immensa, bellezza che mi ha messo sotto sopra il cuore quando, nell'attraversare un ponte a piedi, il piu' fantastico dei tramonti si e' lasciato annegare nel Tevere silenzioso, tutto di giallo e d'oro.

Roma e' lo splendore e la bellezza e io comprendevo perche' tutti i miei amici americani mi chiedono come possa aver scelto di andare altrove. Dove la storia non esiste ma si costruisce.

Poi ieri una telefonata. Un'agenzia di recupero crediti. Un individuo con fare da mafioso che praticamente mi insultava per un arretrato di 200 euro che "noi le abbiamo comunicato" e per lui comunicare significa digitare un numero di telefono italiano, non corrispondente alla mia residenza ne' ai miei dati e che, a New York, non accendo nemmeno. L'arroganza, la spocchia, l'ignoranza e la violenza di quell'essere fetido mi ha - di botto - fatto tornare Angela, italiana in fuga. E mi e' mancata casa e la civilta' e le regole e l'obbligatorieta' alla cortesia e al rispetto. Per legge.

Mi e' mancata casa. Dove la bellezza e' di casa ma non e' spettacolo. Pero' Vivere e' spettacolare e soprattutto possibile.

Questa mattina sono scesa per fare colazione. E - con sguardo meno estasiato - salutare questo corpo meraviglioso e dolente.

Sono in via del Governo Vecchio. Un'altra mattina, un paio di decadi fa, mi svegliai qui e scesi in strada. La notte ci aveva, a noi figli di Enrico Berlinguer, dato un colpo mortale da cui non ci saremmo mai rialzati. Silvio Berlusconi aveva vinto - cntro ogni pronostico - le prime elezioni che l'allora ancora esistente sinistra doveva aggiudicarsi a man bassa.

Qui c'e' la storia. Fatta da altri secoli fa. A casa mia si fa la storia. E il mio presidente sta combattendo con le unghie e con i denti per salvare la sua riforma sanitaria, una pietra miliare nella storia disumana (da questo punto di vista del paese). Il mio presidente, sta difendendo una cosa di sinistra.

Torno a casa. Perche' la storia vada avanti.

Saturday, September 21, 2013

Tolleranza zero

Ecco oggi mi sono svegliata cosi'. Senza se e senza ma. Capita.

Ma non ho piu' tolleranza ne' sopportazione verso il razzismo. Nemmeno verso il mio che pure, a volte, emerge inaspettato.

Possiamo scegliere, pero'. Sempre. Tra il riconoscerci razzisti e trasformare le nostre attitudini e il continuare ad esserlo in maniera spudorata.

Sono zia di un nipote nero. Sono amica/sorella di una coppia di gay che sta insieme da piu' tempo di quasi tutte le altre coppie di amici etero. Sono immigrata, per fame, in un paese che ha i suoi bei problemi con il razzismo e le discriminazioni. Sono del Sud e, dunque, doppiamente discriminata. Aggiungere che sono femmina.

Sono italiana e, dunque, sono figlia del paese di Michelangelo e Leonardo. Del Rinascimento e di Rita Levi Montalcini. Del cibo buono e delle coste mozzafiato. Di Napoli e di Palermo. Di Milano e di Perugia. Ma anche di Mussolini, dei campi di concentramento, di Craxi, Berlusconi, Andreotti, dell'evasione fiscale, dell'assenza di meritocrazia, dell'ignoranza, della corruzione, di Pompei che cade a pezzi, della mafia, di Giancarlo Siani e Falcone e Borsellino. Della Terra dei Fuochi. Del Giglio. Di un parlamento ridotto ad arena di insulti. Della crisi peggiore di tutta l'europa.

Sono italiana. E per questo sono stata "costretta" ad andarmene. Per fermare l'umiliazione e la disperazione. Ho scelto New York. Sarebbe stato oggettivamente piu' facile scegliere qualche paese del Nord Europa. O la Francia che amo. Ma questa era anche una sfida per una serie di altre ragioni.

New York - che adoro - non e' stata una passeggiata. Non lo e' ancora. E' noto, perche' non mi vergogno a raccontarlo, che ho sofferto la fame. A volte, ancora capita. Ho sofferto l'umiliazione di essere ignorata da quei miei connazionali che quando venivo qui "in paranza" mi leccavano il culo. Ho vissuto la paura della solitudine dell'abbandono e della sconfitta peggiore della disperazione con la quale ero arrivata. Per sopravvivere e ritrovare quel sorriso che ora esibisco come testimonianza a me stessa di avere avuto le palle, ho dovuto attraversare l'inferno. Scarnificarmi. Togliermi tutta quella parte di italianita' fatta di supponenza, lamentele, commiserazione, dramma, presunzione, maleducazione, arroganza che mi portavo dentro, salvando pero' allo stesso tempo cio' che con questo passaporto, Michelangelo e Leonardo mi avevano donato: essere persona perbene.

Ogni giorno, ogni santo giorno ricevo lettere, mail e messaggi di persone che vanno via. Senza niente. O di mamme i cui figli vanno via, per sfuggire al niente. Sono piene di immenso dolore.

Siamo carne da macello perche' viviamo in un paese che potrebbe fare pernacchi a tutti gli altri e invece nega la felicita', la speranza e il futuro ai suoi figli. Da almeno due generazioni.

E siccome la disperazione e la poverta' e l'ignoranza (che dalle due precedenti deriva) generano mostri, eccoci diventato il paese che - oltre al resto - e' razzista, di un razzismo cupo, violento, disgustoso. Verso il neri, verso i diversi, verso i gay, verso le donne, verso i poveri, verso chi ha un pensiero diverso, verso chi e' perbene e, dunque, "scemo".

E io non ne posso piu. Oggi 21 settembre, la mia tolleranza e', onestamente ZERO. 

Friday, September 13, 2013

amori

"Ami piu' me o New York?" 

"New York. Per lei ho lasciato tutto cio' che avevo e non avevo. Per te non tornerei indietro. Ma ti accoglierei qui nella mia vita. Accetterei di dire "per sempre". E per una ragazza come me e' una grande offerta, credimi. La migliore che potessi farti".

Wednesday, September 11, 2013

11 settembre

Non dimentichero' mai quando, bambina, vidi mio padre sgomento di fronte alle notizie che arrivavano dal Cile. A casa c'era tristezza. Solo la morte di Berlinguer, ebbe lo stesso impatto sulla nostra famiglia: come se si fosse trattato della nostra famiglia. E in qualche modo era proprio cosi

Non dimentichero' mai l'immagine del secondo  aereo conficcarsi nella seconda Torre, mentre gia' devastata guardavo le notizie in tv. Ero alla federazione del PD di via dei Fiorentini. Quando il PD sapeva ancora farti sperare in un mondo migliore. Le lacrime scesero silenziose. Gli amici mi chiamarono. Il mio amore per NY era - all'epoca - gia' malattia conclamata. Vivendo qui ho ascoltato mille storie, condiviso mille ricordi. Mentre si leggono quei nomi, di cui molti italiani, ogni anno, le lacrime scendono ancora con lo stesso silenzio.

Non dimentichero' mai quella sera, l'11 settembre, quando per la prima volta dicesti di amarmi. Lo dicesti sull'uscio di una porta, mentre mi chiedevi se volevo un bicchiere d'acqua. "Vuoi acqua? A volte, sai, ti guardo e penso proprio di amarti". E mi sorridesti prima di scomparire dietro quella porta. Il nostro 11 settembre non e' mai finito. Come non finiscono gli altri.

Il loro peso nella mia vita non si alleggerira' mai. Sentiro' per sempre tutto quel dolore e tutto quell'amore. E la meraviglia di essere qui a raccontarlo.

Saturday, August 24, 2013

Viaggio dall'Italia

Alle 4 del mattino, puntuali, come in ogni ritorno vissuto negli ultimi sei anni, gli occhi si aprono. Mi ci vogliono alcuni minuti per comprendere dove sono. Quale casa. Quale letto. Nel buio, che qualche luce lasciata accesa nell'edificio di fronte, schiarisce leggermente, riconosco la figura di Dorothy che dorme di fianco al divano dove io sono crollata, quando per me erano le 4.30 del mattino ma per New York solo le 22.30.

So che provare a riaddormentarmi sarebbe inutile. In fondo e' sabato e dopo pranzo potro' concedermi una "pennica", tanto per provare a riequilibrare.

Preparo il caffe'. Mi mancano mia madre e mio padre che mi aspettano in cucina in religioso silenzio prima di organizzare, appena mi vedono fare capolino dalla porta, una colazione che sembrano due.

Di tutto, del mare, del cibo, del sole, delle pause, del bidet, degli amici, mi mancano loro. Vorrei potessero venire qui, vedere dove sono, percorrere le mie strade, guardare i miei cieli, calpestare le mie aiuole e sentirsi piu' sereni. Questa e' l'unica ragione per cui penso sarei dovuta venire prima a NY, per la gioventu' di tutti e di tutto.

Quando ho lasciato l'Italia, molti non capivano. La crisi "sembrava" lontana. La rabbia di tutti ancor piu' sopita in una domenica di calcio o in un acquisto di mercato. Ero pazza. Sembravo pazza. E il bello e' che lo pensavo anche io. Ma non riuscivo piu' a resistere a quella forza dentro che mi diceva, vai, vai, vai, meriti la tua felicita'. Ora in tanti mi chiedono aiuto, consigli, supporto per trasferirsi. Cerco di rispondere a tutti. Agli amici, con piu' dettagli. Agli sconosciuti, come posso. Ho imparato anche che uno sconosciuto non puo' diventare amico solo perche' ha bisogno di te. E tu di ridare un po' di quell'aiuto che in tanti ti hanno regalato (solo americani). Noi italiani, leggevo ieri, non uccidiamo i padri ma i fratelli, come Romolo e Remo, ed e' vero. Abbiamo difficolta' a fare squadra, a sostenerci, aiutarci senza che prevalga quell'atteggiamento di diffidenza o di voglia di "prendere smodatamente senza dare nulla in cambio" giustificando i nostri gesti con la frase "sono stato sempre sfortunato". Belli i miei fratelli yankee, come bambini sempre pronti a fare squadra per vincere una partita e senza nemmeno l'idea di cosa siano parole come "fortuna" e "sfortuna".

Quando sono arrivata qui, dicevo, ero "spaesata" - S-PAESATA. Senza paese. Ora, ne ho due. O forse piu. Solo che quello da dove arrivo non ha orgoglio, non ha speranza, non ha fiducia in se' stesso. Fa spallucce e dice, continuamente, stancamente, atrocemente "ma l'Italia e' cosi". La rassegnazione che ho avvertito questa volta e' stata la peggiore degli ultimi sei anni. Rassegnazione piu' che rabbia. Questa la nostra condanna. Pensare che non si possa cambiare, rivoluzionare, stravolgere e risorgere come il paese che potremmo essere.

All'aeroporto di Milano, citta' che amo molto, non riuscivo a collegarmi ad internet per inviare un articolo. Sono andata alla sala Vip (avevo provato gia' con Lufthansa) senza averne diritto ma chiedendo un miracolo: che mi facessero stare li' il tempo di inviare un articolo. Due impiegate Alitalia, con sorrisi e gentilezza, sebbene prima titubanti, mi hanno fatto sedere, scrivere, e quando le ho ringraziate mi hanno detto che potevo restare e prendere qualcosa al bar. "In questi tempi, soprattutto con la crisi, il lavoro e' sacro" mi ha detto una di loro quando sono andata a salutare prima di imbarcarmi. Nonostante tutto, nonostante tutti, sono salita in aereo ancora piu' convinta che, se ne fossimo sicuri noi, potremmo cambiare e dare punti a tantissimi altri.

A JFK la fila gia solitamente lunga per l'immigrazione che odio, non ha funzionato e cosi' - da prima - sono passata ultima. Perche' le cazzate le fanno ovunque una volta tanto. Solo che non diventano abitudine o modo di agire come da noi. La gente si incazza e allora si chiede scusa.

Sono le 5.21. Il primo caffe' della giornata e' andato. Dorothy e' tornata a dormire. La citta' e' silenziosa e il sole non e' ancora spuntato. In Italia starei preparando la borsa per il mare con mia madre che mi dice "ma non ti porti nulla per pranzo?" e papa' "non dimenticarti il tesserino e i biglietti dell'autobus".
Non esiste ricerca di felicita' senza un prezzo da pagare. La felicita' sono istanti. Singoli. Unici. Che poi velocemente passano in attesa dei prossimi.

Sunday, July 21, 2013

Il coraggio dell'ottimismo.

La luce del mattino arriva troppo presto in estate. Eppure quando apro gli occhi e, dalle veneziane tirate su a meta', per lasciare le finestre aperte, vedo i palazzi che mi circondano, l'immagine familiare di questo quartiere che amo ancor piu' di quanto ami la stessa citta', un sorriso mi distende il viso.

Se sono fortunata, voltandomi dall'altro lato, nel soggiorno, stesa placidamente sul tappeto, vedo Dorothy dormire. A volte sogna, muove le zampe come se corresse. La guarderei per ore. Da dieci anni e' al mio fianco, paziente e fondamentale. Come l'aria.

Questi minuti che mi concedo, pochi in effetti, prima di alzarmi, solitamente mentre fuori e' ancora quasi silenzio e pochi camminano in strada, con in mano gli immancabili bicchieri di caffe' o cappuccino,  sono cruciali per il resto della giornata. Danno forza alle gambe, sollievo alla mente e energia al cuore. E mi trasformano, come da sei anni a questa parte, nella guerriera che ho imparato ad essere.

Ho creduto per anni di essere ottimista. Non lo ero. Perche' non ero coraggiosa. Avevo paura di tutto e la paura mi imponeva di non fare mai un passo diverso dal percorso che mi appariva piu' familiare, anche se tortuoso, anche se doloroso, anche se minaccioso. Un passetto dopo l'altro con l'illusione di andare avanti, mentre invece, piu' spesso giravo in circolo.

Non ero ottimista ma, per fortuna, ero attaccata alla vita come una disperata. Come una che sente che non deve perdersela perche', cavoli, se capisco come ci si gioca, e' proprio una figata.

Per sei anni, ogni settimana, mi sono seduta di fronte ad una donna, la mia analista, che a volte odiavo con tutte le mie forze perche' mi faceva male, senza accorgermi che, invece, lei mi aiutava solo, quel male, a vomitarlo. Quando ci siamo salutate, per la prima e unica volta, mi ha abbracciata. Le devo parte di me. Le devo avermi aiutata a ridisegnare una mappa del mio animo turbolento per riuscire a trovarmi.

Eppure quando sono arrivata qui, sei anni fa, ancora non ero ottimista. Perche' ero stata coraggiosa ma senza saperlo. Senza avere il coraggio di dirmelo perche', in Italia, mi avevano insegnato che il coraggio e' peccaminoso e prima o poi viene punito. Se non hai gli amici giusti.

La mia storia, che spesso ho raccontato e racconto quando parlo in pubblico o mi intervistano e' che a salvarmi e' stato Barack Obama e quel libro "l'audacia della speranza" trovato su quel tavolino, al mio arrivo, quando la disperazione dell'ignoto mi aveva sopraffatto, gettandomi nella disperazione.

Ma Barack Obama e' arrivato dopo sei anni in cui Chiara (la mia analista) aveva, con dolore, puntellato tutte le mie travi portanti perche' reggessero all'impatto con il vivere. E New York era arrivata dopo Chiara e dopo Barack.

Eppure non ero ancora ottimista. Finche un giorno Ginny, dopo l'ennesima lamentela, mi disse "devi smetterla di essere cosi' italiana, smetti di essere cosi' drammatica e sii ottimista".

E' stata dura esserlo quando non avevo nemmeno i soldi per un cestino di fragole. Quando sono morte persone care e non avevo i soldi per un biglietto aereo. Quando, in una stanza dove vivevo, che qui chiamano casa, mi sono trovata con topi e scarafaggi (i miei incubi). Quando, senza soldi ne' garanzie, mi sono trovata a vivere ad Harlem, in una strada dove si preparava e vendeva il crac, ad un angolo c'era l'ufficio che distribuiva i buoni pasto per i poveri e all'altro un negozio di liquori dove quegli stessi poveri andavano ad ubriacarsi. Una mattina ho visto una donna morta a terra. La vedevo sempre ubriaca alle 8 di mattina. Mi chiedevo sempre quanti anni avesse. E' stato difficile essere ottimista, quando la paura di finire allo stesso modo ti devastava. Allora aprivo gli occhi al mattino e le lacrime scendevano. Senza sforzo alcuno. Preferivo starmene nel lato di quel corridoio che chiamavano casa, senza luce e senza finestre, per fingermi di essere altrove.

Comprendere che si e' coraggiosi e, dunque, scoprirsi ottimisti e' cosa dura. Non accade naturalmente. Non se quel coraggio non lo metti alla prova e ti aiuta a venire fuori dal buio. Non se puoi evitare di andare ad Harlem perche' batti cassa da qualcuno che ti firma un assegno e ti permette di continuare a vivere senza vivere.

Quando ho lasciato Harlem e sono arrivata in questo palazzo, mi sono seduta sulla mia poltroncina di Ikea, e mi sono guardata intorno per ore. Non avevo nulla, nemmeno un tavolo. Solo il letto. Ma io e Dorothy eravamo finalmente a casa e finalmente ottimiste.

Da allora sono iniziate le foto allo specchio e i sorrisi e il sentirsi bella e anche - perche' no - brava. Ero nata. E dopo tutto quel dolore, ne ero immensamente felice.

Sorrido sempre? No. A volte mi incazzo. A volte sono annichilita dagli eventi come quando ho scoperto che qualcuno che credevo amico, aveva solo abusato del mio coraggio e del mio ottimismo per  pagarsi il proprio "sfizio" con il mio sudore, persino deridendomi per quello.

Ci sono intoppi e inciampi Ci sono giorni no e giorni stanchi. Ci sono i gironi delle paure cattive e poi quelli dei soldi che scarseggiano come sempre e non sai da dove arrivera' la boccata d'aria

Ma prima di tutto ora c'e' un gesto. Il gesto dell'ottimismo e del coraggio: mi rimbocco le maniche perche' so che li', in quel gesto, c'e' la salvezza. E in un rossetto rosso fuoco che mi serve a non passare inosservata perche' chi e' coraggioso non si perde mai tra la folla.

Wednesday, July 10, 2013

Mia

Questa citta' e' mia
come la mia pelle
come il mio respiro
come la stanchezza che ti annichilisce
come il mio entusiasmo
come la paura che ti blocca
come la mia risata
come le lacrime che arrivano inattese
o attese
come la mia meraviglia
come l'ansia che ti rallenta il cuore
come i miei sogni
come l'amarezza di un risveglio
come le mie fatiche
come i conti da pagare
come un film da protagonista in cui IO sono la protagonista

Questa citta' e' MIA
perche' mi ha sfiancato, provato, testato, spezzettato,
e poi ricomposto
ricostruito
rimesso al mondo

Questa citta' e' MIA
perche' l'ho amata da uno sguardo antico da un aereo, in un atterraggio all'ombra delle torri
L'ho amata senza chiedermi il prezzo.

L'ho amata e l'ho fatta mia

E lei mi ha reso sua.

Per sempre.

Friday, July 5, 2013

Diciamolo.

Diciamo, il tuo comportamento e' stato di merda.

Perche' va bene il "politically correct", l'essere superiori, la signorilita', l'educazione e l'equilibrio ma, ogni tanto, un bell'allucco fa proprio bene al cuore ai polmoni allo stomaco alla milza e pure alla pelle.

Perche' e' regola d'oro non aspettarsi nulla se si fa del bene. Ma pure ricevere in cambio un bastone da baseball nei denti, non e' tanto bello.
Io ho dato e tu hai preso. Perche' funziona cosi.
Anche a me danno, e io prendo.

Ma sputare poi in faccia a quelle personcine li', beh non mi viene facile. Non ce la faccio.

Dunque chapeau alla cazzimma. Quella che ti crea l'infelicita' nell'occhio per questo sempre velato.

Perche' c'e' una cazzimma buona che e' quella che scorre nelle MIE vene
E c'e' quella tossica che tu conosci bene.

Pero' per essere cosi arrevotati nel cervello e credersi anime del purgatorio, atteggiarsi a madonnine infilzate che la Madonna dell'Arco in fondo e' una cantante di piano bar in quanto ad allegria, ci vuole stile. E tu ne hai.

Lo stile di un abito di Roberto Cavalli (il peggio credo che la moda abbia prodotto) indossato dalla Santanche' quando e' ubriaca.

Diciamolo


Monday, June 3, 2013

differenze



A me il dolore passera'. E diventera' lezione di vita. Per migliorare

A te no. E resterai essere umano rancoroso e triste. Accusando la sfortuna e il mondo che trama contro di te.


E' la differenza che fa la differenza

Saturday, June 1, 2013

compleanni

New York e' il mio regalo. Da sei anni
Ecco perche' la mia torta avra' sei candeline. Sei anni fa io sono rinata. Sei anni fa - con dolore e lacrime - sono rinata.

Ero morta. Come solo i morTi che vivono possono essere morti. Morta in un paese che mi aveva tolto ogni entusiasmo e speranza. Non sapevo piu' chi fossi e se fossi brava o un'asina. Non mi sentivo nemmeno piu'. Vivevo in una specie di solitudine in cui il tempo e' un machete che ti taglia a pezzetti. Fino a lasciarti lacera. Non potro' ma perdonare l'Italia, o meglio gli italiani, per tutto cio' che mi hanno tolto. Non potro' mai perdonare l'Italia, o meglio gli italiani,  per cio' che ha tolto ai miei genitori, togliendogli in parte me. Continuero' ad amarla con sofferenza perche' e' li che sono diventata Angela. Comunque. Ed e' li' che ci sono le ragioni di pezzi di me che fanno oggi, l'essere umano (splendido!!!! ;) diciamolo) che sono.

Sono arrivata a New York di fine marzo, quando la neve si alternava al sole e non sapevi come vestirti. Io non sapevo nemmeno dove andare, che fare, chi vedere o come fare la spesa in un supermercato. Io ero sola e senza un soldo e piena di paure orribili. Passavo ore attaccata al computer, invece di uscire, per parlare con chiunque fosse in Italia. La malinconia mi stava infliggendo il colpo di grazia.

Ricordo pero' che spinta da chissa' quale disperazione, comincia a prendere puntualmente la metro, dal Queens, dove abitavo, fino a Central Park. Li' camminavo e poi mi fermavo e respiravo. A volte mi stendevo sull'erba a pancia in su e guardavo le nuvole alternarsi al sole. Riuscivo persino a non pensare.

Sono stati giorni di profonda e disperante solitudine. Di abbandono. Di commiato da me stessa. Da quella me stessa che era ormai troppo infelice.

I primi mesi non mi e' stato risparmiato nulla di difficile, negativo, doloroso, inclusa la morte di una delle persone a me piu' care. Al suo funerale non ho partecipato. Non avevo i soldi per farlo. Non perdonero' nemmeno questo all'Italia.

New York, all'inizio ti sfida. Non ti abbraccia amorevolmente per proteggerti. Ti scova se ti nascondi in un angolo. Ti stana se provi a chiudere la porta. Ti provoca, ti sfinisce, ti inquieta, ti tramortisce. Ti mette di fronte a te stessa e ti chiede: tu cosa vuoi? Se non lo sai, se non ti sforzi di capirlo, questa non sara' mai la tua citta'. Se continui a guardarti alle spalle e a compiangerti per le tue "sfortune" questa non sara' la tua citta'. Potrai viverci. Ma non sara' TUA.

"Smetti di essere cosi' italiana" mi disse un giorno una delle mie piu' care amiche. Una di quelle conosciute mentre ancora, come i topi, provavo a camminare rasente il muro per non farmi scorgere. "Smetti di lamentarti sempre". Quello fu lo schiaffo in pieno viso. E l'inizio della mia salvezza.

Ora non cammino come i topi ma faccio sfilate come i giocatori della squadra degli Yankees quando vincono il campionato. E tutti dai palazzi a lanciarmi coriandoli ed applaudirmi. Perche' ora sono nata e sono newyorchese. Perche' ho smesso di aver paura di aver paura e di lamentarmi e di usare parole come "fortuna e sfortuna".

In piu' sono diventata piu' pratica, meno sdolcinata e sicuramente zero formale. Se faccio una cosa o se amo qualcuno e solo perche' ne ho voglia e mi fa stare bene. Se mi fa stare male, chiudo. Senza appello. Perche' il mio tempo in questa nuova vita non dura per sempre ed io ho l'obbligo morale di onorarlo.

In sei anni ho visto molti venire qui. Restando italiani nel modo peggiore: tristi, malfidati, poco generosi, invidiosi, presuntuosi, spocchiosi e lamentosi. Alcuni li ho visti da vicino. Spesso riescono ancora a ferirmi se, come fece la mia amica Ginny, provo a tendere una mano, dare un consiglio. C'e' chi mi ha succhiato energia come con una cannuccia, ripagandomi con disprezzo. Il lato positivo e' che anche quello e' servito a rendermi migliore. E a rendere ancor piu' miserabili loro. Quando chiudo non torno indietro. Senza rimpianti.

Compio sei anni. Sei anni che a raccontarli ci vorrebbe un'altra vita. Ma che provo a sintetizzare in sei parole
NEW YORK GRAZIE PER ESSERE CASA.

Wednesday, May 8, 2013

Ombrelli

Ero sotto un'impalcatura di un palazzo, stanca e bagnata fradicia e non riuscivo a muovermi per proseguire e bagnarmi ancora

Un uomo mi e' passato accanto con un ombrello, mi ha guardata e mi ha detto "dove vai? ti accompagno io".

L'ho seguito d'istinto. Ero cosi' stanca e lui cosi' gentile. Abbiamo camminato e parlato e alla fine avevo un sorriso che l'acqua non era riuscita a far scivolare via.

In sei anni mi sono fermata molte volte sotto un'impalcatura, incapace di muovermi, paralizzata dalla paura, infreddolita e stanca.

Ogni volta ho trovato qualcuno che mi ha preso per mano e mi ha accompagnato, 'solo due blocchi piu' in la' "

Ricordo ciascuno di quei volti. Ogni ombrello, ogni mano, ogni spalla, ogni dollaro, ogni pasto, ogni sorriso, ogni silenzio. Ricordo.

E ricordo che ho avuto il coraggio di seguire quegli ombrelli, quelle mani, quelle spalle.

Il coraggio della disperazione. Il coraggio dell'ottimismo.

Wednesday, May 1, 2013

America the beautiful

Ieri, come sanno molti di quelli che seguono il delirio dei miei status di Facebook, ho capito in maniera ancora piu' chiara quanto questo paese mi sia entrato nel sangue. Quanto lo consideri casa, tana, rifugio e, insieme, trampolino dal quale saltare, magari per non arrivare in nessun luogo, ma potersi librare felice e leggera nel cielo. Da viva. Senza prima dover morire.

Mentre camminavo a passo svelto lungo una spettacolare Park Avenue, completamente lastricata di tulipani dai colori lussureggianti, alle mie orecchie sono arrivate le note di "America the beautiful" cantata da Ray Charles. Non e' l'inno americano ma molti lo vorrebbero come tale. Tanto che - ascoltandolo - a volte - gli viene spontaneo - mettersi la mano sul cuore. Quanto ho deriso io stessa quel gesto cosi' "drammatico". Quel gesto che ora mi viene spontaneo persino quando sento Fratelli d'Italia. 

Ho molto amato l'Italia. E' la mia patria e lo sara' per sempre. Quando la "fustigo" e' per il dolore che mi da' vederla ridotta cosi'. Vorrei si rialzasse, in uno scatto d'orgoglio che non arriva mai. Perche' noi italiani, che mai ci mettiamo quella mano sul cuore, in fondo non la amiamo per nulla. La "difendiamo" per dovere, per strascichi di quel retaggio fascista che ci obbliga ad essere "patrioti" o "anti patrioti" a seconda del lato della storia di cui si e' deciso di far parte.

Quando mi sono allontanata, ho capito che chi amavo poco, molto poco erano moltissimi dei miei concittadini e non il mio paese. Si capisce da come ne parlo quando ne parlo con gli americani. Mi ascoltano e prenotano un viaggio. Soprattutto a Napoli.

Eppure noi siamo una razza strana, difficile, presuntuosa senza ragione, serva senza orgoglio, privata del sentire profondo di concetti altissimi quale liberta', democrazia e dignita'. Tutto cio' che ci limitiamo a fare - facendolo da maestri - e' di criticare gli altri. Sappiamo a memoria, per filo e per segno cosa non va negli altri paesi - tanto per giustificare le nostre miserie. Quasi mai, anzi mai, ho sentito un americano insultarci come noi facciamo con loro. Eppure molti americani sono ebrei e noi - in un tempo non molto lontano - li abbiamo allegramente condotti nei lager per farli morire in maniera disumana. Noi italiani. 
E quando non abbiamo fiele verso gli altri lo abbiamo verso chi ci governa. Sempre. In maniera qualunquista e becera tanto da essere stati capaci per un ventennio di avere Mussolini, di avere Craxi, di avere Berlusconi e ora di esserci trovati come "alternativa" ancora piu' qualunquista, becera, volgare e inopportuna, un comico miliardario che incita alla violenza e alla distruzione delle istituzioni.

Mentre scrivo gia' mi viene l'ansia. Provo, dunque, il piu' profondo rispetto per chi ha scelto di restare e tutto cio' continua a viverlo sulla propria pelle. Per anni ho evitato i mie connazionali in blocco. Ora ho aperto le porte a quelli con i quali sono in sintonia perche' - naturalmente - il mio atteggiamento era sbagliato sebbene necessario.

Ieri, pero', ascoltando "America the beautiful" mi sono commossa. Perche' questa ora - sebbene non posso ancora chiamarla patria - e' casa mia. Qui io sono libera. Di sognare e avere aspirazioni. Basterebbe questo. Ma poi ci sono tramonti che ti tolgono il fiato, vastita' in cui perdersi, tutte le razze del mondo in pochi metri quadrati, autobus e treni puntuali, regole, a volte insopportabili, ma regole. Spesso, ho paura della mia fragilita'. Sono fragile perche' sto costruendo un piccolo castello tutto da sola. E qui ci sono gli uragani. Sono fragile. Per questo, ancora, subisco, con dolore, gli attacchi dell'irriconoscenza, della miseria d'animo, dell'indifferenza, quando mi arrivano. Soprattutto quando mi arrivano da vicino. Forti e ben calibrati. In quei momenti il castello trema come in un terremoto, le ossa fanno male e la paura mi pesa sul cuore e mi blocca il respiro. 

Sono momenti. Quelli che mi servono a costruire la mia forza e a rinsaldare il mio amore per questa casa. Questa casa che mi tiene, mi avvolge, mi spinge a guardare in alto, verso il cielo, sempre. Sempre.  Sempre. Sempre mi ricorda che posso volare. Ma non come Icaro con ali pronte a sciogliersi al sole. Come Angela Vitaliano, nipote di Arcangela che votava "in alto a sinistra" e Vitaliano di cognome, una famiglia di quegli italiani non servi, non schiavi, non miseri e che hanno sempre saputo guardare al blu del cielo e che per arrivarci, hanno iniziato rimboccandosi le maniche

Monday, April 22, 2013

The price of a passion

Let's start with a premise: I don't give a "damn" to call myself a journalist. Sometimes I would prefer to be a baker at Magnolia Bakery and live wrapped in that wonderful smell of sugar and cream and colored cupcakes. I would not even gain weight because I don't like cupcakes.

So I am not part of that category of people that likes to precise "I am a journalist or a freelance" and goes around with some badge hanging from their neck as a leash, not even very elegant. Every time they give me a "badge", honestly, all i think is that I will have access to the buffet and eat for free. Should I feel ashamed? Not at all. because I am not rich and sometimes I cannot shop grocery. So a free meal is always welcome. And if it is offered to stay 8 hours to follow the boring meetings of a summit where the most exciting thing is to meet the President, well, than that badge is well deserved.

My dream is to cook. My goal is to have a radio show. What I do easier is writing. When I lived when roommates back at the University, every Valentine's day, I was - of course - single and In charge for writing all their Valentine's cards. Each one different from the other. I don't like to make copies. This is why I was able few times to write - as a ghost writer - 3 different prefaces for the same book, signed by 3 different people.

All this said. Often people insult me when I write and honestly I don'g give a damn to this either. I notice, though, often smiling (sometimes getting angry) that many people say that i don't understand anything because I live in my "golden new yorker world", overpaid and with the only obligation to move from one fancy party to the other.

People don't know anything but they try to insult you using some stereotype that somebody else stuck in their brain. i know this as well.

Another short premise, before to get to the point. I am happy here and I don't want to go back. I already found the bench, in Riverside Park, facing the river that, thanks to a fundraising that Chiara will hold, the city of NY will devote to me. I want to stay here even after my death, to stay alive.

Yesterday I was in Boston. I wrote an article, I think a good one. That article will be paid - may be - in couple month and the money will barely cover the expenses that I paid upfront for the bus and a sandwiches and the water. For free, as all blogger, I have also written a blog and twitted all day long to give details "live". i think I did a good job. To save money I didn't fly there or took the train but I spent 9 hours in the bus (round trip) and when I get there I could barely move my legs. I choose the less expensive sandwiches and I drank a Coke because it is less expensive than water . I walked around Boston with 2 heavy bags to save the money for the cab and I took pics using the camera I am paying monthly and when it was time to write the article i realized that the nearer Starbucks was closed and I didn't have internet. I wanted to cry. Then - as a revelation - I saw my gym!!!!! My only, precious luxury that I keep. I went in and I looked for a plug in for my Ipad and because the cable was too short I wrote the article sitting on the floor with the music aloud of the gym and people working out all around. I was starving and thirsty but I couldn't move because my deadline was almost there.When I pushed "send" and my boss said "all ok" I stayed there few minutes wiling to cry. I had to pee and I couldn't move my legs. But right then I got a message from somebody saying "great work today". 


When you are a journalist, when you have this damn passion, it is hard to ask which is the price to pay before to start. The price that a freelance pays, then, is inhuman. In my country, we are nothing, We don't have dignity. We don't have fame. 


I don't "hate" my colleagues with rich salaries, benefits and hotel where they can rest and write and pee and restaurant where to eat. I don't hate them. But very often they look at us in a snobbish way, almost with disgust, always with indifference. Many other people, then, have a wrong idea about us, that contribute to make us more and more invisible.

If someone asks me if I am a journalist, i say "no". Journalist is someone that can live with this job. I do other things to survive. Shamelessly I often survive with the help of friends, all Americans, who send me grocery home or buy me stuff when I cannot. My family help me even if they are not rich at all but they believe in me and support me any way. I survive because I am humble and proud and versatile and I consider myself much better than others that never took a chance to accept a challenge and go for it. When someone asks me what do I do, I say "I write" that means all and nothing. And when they ask me if I am a journalist I say "no" and I explain that to be a journalist in the country where I was born you don't have to be good (and I am good) but you have "to know someone powerful" - "someone". As for any other job.

Yesterday I wrote about Boston. My dad told me "you always put a little of heart in what you write. Not your colleagues. May be you should do like them". May be not, dad. They "do" a job. I allow myself the luxury of a passion






Wednesday, April 17, 2013

Il prezzo di una passione

Partiamo da una premessa: a me di dire che "sono" una giornalista non importa nulla. A volte preferirei essere una pasticciera da Magnolia Bakery e vivere fra quell'odore meraviglioso di zuccheri e creme e cupcakes colorati. Nemmeno ingrasserei perche' i cupcakes non mi piacciono.

Io, dunque, non appartengo alla categoria di chi ama precisare "pubblicista o professionista" e se ne va in giro con badge attaccati al collo come collari per cani, nemmeno tanto eleganti. Ogni volta che mi danno un badge, onestamente, tutto cio' a cui penso e' se questo mi da' diritto ad accedere ad un buffet e mangiare gratis. Vergognarmi? Assolutamente no. Perche' sono povera e spesso non ho i soldi per fare la spesa. Dunque, un pasto gratis fa sempre comodo. E se me lo offrono per stare 8 ore a seguire i lavori noiosissimi di un Summit, dove l'unica cosa bella e' incontrare Barack Obama, allora e' meritato.

Il mio sogno e' cucinare. La mia aspirazione e' parlare in radio. Cio' che faccio con piu' facilita' e' scrivere. Quando vivevo con le mie coinquiline, ai tempi dell'universita', a San Valentino, io puntualmente single, scrivevo i loro biglietti per i fidanzati: tutti diversi, tutti cuciti addosso alla persona. Non mi piace copiare. Trarre ispirazione dai dati si', ma copiare lo detesto. Per questo sono stata capace, in un paio di occasioni, di scrivere prefazioni allo stesso volume firmate da tre persone diverse: tre prefazioni diverse per contenuto, linguaggio e stile.

Premesso cio'. Spesso mi insultano quando scrivo e onestamente nemmeno questo mi importa particolarmente. Noto, pero', spesso, sorridendo (a volte incazzandomi) che molti mi accusano di non capire un cazzo di niente perche' me ne vivo nel mio modo dorato newyorchese, strapagata e obbligata solo a passare da una festa all'altra di gente Vip.

La gente non sa nulla ma prova ad insultarti usando stereotipi beceri che qualcun altro gli ha messo nella testa. So anche questo.

Un'altra piccola premessa, prima di arrivare al punto. Io qui sono felice e non tornerei in Italia. Ho gia' persino individuato la panchina a Riverside Park, che guarda al fiume e che, grazie ad una colletta di amici che Chiara organizzera', la citta' dedichera' al mio nome. Voglio restare qui da viva e da morta, per continuare a vivere.

Ieri ero a Boston. Ho scritto un pezzo, secondo me bello. Quel pezzo, fra un mese o un mese e mezzo mi verra' retribuito con una cifra che ripaga malapena il biglietto dell'autobus per andare a Boston e il panino che ho mangiato e l'acqua che ho bevuto. Gratuitamente, come tutti i blogger, ho anche scritto un blog e tweettato per tutta la giornata per raccontare la cronaca del day after. Credo di aver fatto un buon lavoro. Fra molte settimane, dicevo, mi arrivera' un pagamento (che ad altri nemmeno arriva, lo so) che coprira' poco o niente. Sottolineo che, per risparmiare, non ho preso l'aereo e nemmeno il treno (300$ il treno contro i 35$ del bus) e mi sono fatta NOVE ore di viaggio andata e ritorno che all'arrivo non potevo nemmeno muovere le gambe. Ho mangiato un panino, scegliendo rigorosamente il piu' economico e ho bevuto una coca cola perche' costa meno dell'acqua. Ho attraversato Boston a piedi con due borse pesanti per non prendere un taxi ne' comprare il biglietto della metropolitana. Ho fatto foto con la macchina che sto pagando a rate, 30$ al mese, e quando dovevo scrivere il pezzo mi sono resa conto che l'unico Starbucks vicino (dove puoi sederti senza consumare) era chiuso. Avevo voglia di piangere perche' ovunque avrei dovuto comprare un credito e spendere altri soldi. Poi ho visto, come se avessi visto la madonna, la sede della mia palestra, il mio vero unico lusso newyorchese: una palestra la cui membership ti da accesso alle sedi di tutti gli USA. Sono entrata li' trafelata e mi sono seduta a terra perche' il filo dell'Ipad era troppo corto e ho scritto. Ho scritto mentre intorno, musica ad alto volume, la gente faceva ginnastica. Avevo sete e fame ma non potevo muovermi perche' il tempo era quasi finito. Quando ho schiacciato invio e il capo mi ha detto "ok", sono rimasta seduta li' per qualche minuto con tanta voglia di piangere. Dovevo fare la pipi e le gambe non le sentivo piu'. Ma poi mi e' arrivato un messaggio e qualcuno mi diceva "brava, ottimo lavoro". Giusto il preludio delle parole di mia madre, stamattina, "mi hai fatto commuovere".

Quando "sei" giornalista, quando hai questa maledetta passione ti viene difficile chiedertene prima il prezzo. Quello che paghiamo noi, freelance, carne da macello, anime calpestate e nomi senza dignita' di gloria alcuna, e' un prezzo disumano. Di cui nessuno prova vergogna. Nemmeno, ovviamente, quel comico volgare che ci definisce "poveracci da 10 euro al pezzo".

Non "odio" i miei colleghi da stipendi da tanti zero al mese, con belle case, hotel dove riposare e scrivere e fare pipi e ristoranti dove mangiare. Non li odio. Sia chiaro. Ma noi siamo carne da macello e, spesso, anche loro ci guardano con un'insopportabile puzza sotto il naso. Gli altri poi, hanno di noi immagini assolutamente lontane dal reale che ci rendono ancora piu' invisibili.

Se mi chiedono se mi sento una giornalista dico di no. Giornalista e' chi puo' vivere di questo mestiere. Io faccio altro per consentirmi il lusso di scrivere. Io, senza vergogna, spesso sopravvivo con l'aiuto di amici (americani) che mi mandano una spesa a casa o che mi regalano vestiti o persino una visita medica. Vivo dei "regali" che mi fanno mia madre e mio padre ritagliandoli da una pensione ridicola e della mia versatilita', della mia umilta' e del mio orgoglio che mi fa sentire sempre una spanna superiore a tanto marciume che languidamente stagna sotto di me. Se mi chiedono che faccio io, al massimo, dico "scrivo" che significa tutto e niente. E quando mi dicono "sei una giornalista?" dico no e spiego che nel paese dove sono nata, per "essere" una giornalista devi essere ricca o avere "gli amici giusti". Come per tutto il resto.

Ieri ho raccontato Boston. Mio padre mi ha detto, tu ci metti sempre un po' di cuore, gli altri no. Forse dovresti fare anche tu cosi. Forse no papa'. Loro fanno un mestire. Io mi consento il lusso di una passione.

Friday, April 5, 2013

Pensieri ad alta quota


Quando sei seduto in aereo per quasi tre ore, incastrata fra due dormienti compagni di viaggio, assolutamete sconosciuti, e' inevitabile che, sebbene dovresti finire "assolutamente" quell'articolo, la mente cominci a volare per fatti suoi, capricciosa e incapace di starsene qui seduta. E sul mio viso si alternano sorrisi e malinconie a seconda delle immagini che si avvicendano dinanzi ai miei occhi.
Mamma e papa che salutano dal balcone. Dorothy e' con me. Questa volta viene anche lei a NY. Quella volta papa' SA che sto andando via per sempre. O perlomeno un persempre abbastanza lungo per fare male. Molto male al cuore. La mano si agita mentre gli occhiali sa sole nascondono lacrime a rivoli, senza vergogna. Quando lasci tutto alle spalle non c'e' spazio per la vergogna, non c'e' tempo per essere adulti. Dorothy nel trasportino non sa. Salutarla nella disorganizzazione terrificante dell'aeroporto di Capodichino quasi mi ferma il cuore. Una delle prove piu' difficili alle quali la mia sfida alla vita mi ha sottoposto. L'aereo parte con due ore di ritardo. Chiedo al caposcalo della Eurofly se hanno dato da bere a Dorothy, quello mi guarda e mi ride in faccia e mi dice "a quest'ora il cane sara' bello che morto". Ho volato per 9 ore piangendo senza tregua, pregando e parlando con Dorothy, chiedendole di non morire, di sentirmi perche' io ero la' e presto l'avrei abbracciata. Quando ho ritrovato il trasportino abbandonato nel mezzo dell'aeroporto (in barba a tutti i regolamenti che obbligano uno dell'equipaggio a stare li con il cane ed aspettare il proprietario) mi sono gettata a terra sulle ginocchia e ho aperto la porta. Dorothy ha lanciato un ululato che ha fatto accorrere i poliziotti. Ci hanno trovate abbraccite, lei non riusciva a stare in piedi. Mi hanno detto gentilmente che non poteva stare fuori dal trasportino. Ma mi hanno aiutata e scortata, quando sono passata di fianco alla flotta dell'Eurofly li ho maledetti tutti. Non ho mai piu' volato Eurofly. E maledico le compagnie aeree che lasciano volare chiunque ma non i cani, nemmeno uno per volta, a bordo come esseri umani.
Sono entrata in un bar. Sto tornando a casa ma fa troppo freddo. il primo inverno a NY mi sta mettendo a dura prova. Non ho soldi, tanto per non cambiare, ma un caffe' caldo ci vuole. Costa meno di taxi. Mentre comincio a riprendere i sensi mi accorgo che di fianco c'e' un uomo che mi guarda e sorride. Gli sorrido e mi dice qualcosa sul gelo che c'e' fuori. Cominciamo a parlare. Ha studiato un po' di italiano e lo parlicchia. Mi accordo che e' proprio belloccio con occhi azzurri come il bellissimo maglioncino. Di cashemere ovviamente. Mi chiede se vogliamo prendere un tavolo e cenare insieme. Penso ai soldi che non ho ma penso anche che "cavoli, quante volte succede una cosa cos". Arrivano i menu' - scorro con sguardo gia' addestrato, a cercare la cosa meno costosa ma lui mi chiede, facendo mi raggelare, se gli do' l'onore di ordinare per entrambi. Ovviamente senza ritegno. Lui parla, racconta, e io penso a come potro' recuperare quei soldi... Arriva il conto, un brivido mi attraversa la schiena. Non riesco a muovermi per l'ansoia. Una frazione di secondo e lui ha gia' messo li' la sua Amex gold. Sono innamorata. Mi vedo gia' camminare verso bloomberg con fascia a stelle e striscie che ci unisce per sempre, nel bene e nell'american express. Finalmente sono serena. Usciamo. Nevica. La neve mi distrae dalla sua voce che mi chiede se puo' offrirmi un taxi. Abito a due blocchi, rifiuto signorilmente. Si avvicina e mi dice "domani vado a londra, al ritornovoglio rivederti". Si avvicina ancora e mi bacia, facendomi andare all'indietro proprio come in un film. Quello della mia vita. Quello bello perche' bella sono io, sotto la neve.

Monday, March 25, 2013

Alba a New York.

Ci sono mille modi di vivere un'alba. La si puo' respirare, con boccate piccole, occhi impastati di sonno e un giubbino di jeans addosso o un plaid di lana, a seconda delle stagioni: giusto prima di andare a dormire. O la si puo' accogliere, con polmoni in cerca di nuovo ossigeno, occhi come ferite a cercare sollievo nella carezza delicata dei primi bagliori di luce e una tazza di caffe' fra le mani: giusto prima di ricominciare a vivere la vita.
Quando abitavo a Napoli, molti anni fa, lavoravo per un'agenzia di stampa - Informedia - e dovevo essere al mio posto a lavoro alle sei. In quel periodo, odiavo quelle notti che non riuscivo a chiamare "alba" e che interruppero per sempre il senso "ordinario" di una gioventu' tuttavia splendida: noi eravamo quelli che andavano al lavoro quando molti coetanei tornavano da serate in discoteca. Odiavo l'attesa alla fermata dell'autobus. Il maledetto C21 che non passava mai e una via Petrarca che mi terrorizzava con il suo silenzio, la sua oscurita', i suoi mille tranelli. Mi terrorizzava almeno quanto poi l'amavo in ogni curva, in ogni dettaglio di sole, in ogni albero, in ogni azzurro di mare che dall'alto mi affabulava.
Un giorno, pero', era la vigilia di Natale, arrivando a Mergellina mi si paro' dinanzi agli occhi, come un affresco da museo, fotografia che nessun fotografo saprebbe mai cogliere, lo spettacolo indimenticabile dei pescivendoli in piena attivita' in vista del cenone natalizio. Mi ricordo che fermai il motorino, incurante del freddo, e restai a guardare quel muoversi argenteo di corpi, le mani, le voci, gli schizzi dell'acqua, il sussurro del mare, il rollio delle barche. E seppi cos'era la felicita'.

A New York l'alba e' stata spesso necessita' di risveglio per tacitare il rumore troppo forte di un cuore in tempesta. Placare le paure, le ansie, le angustie di ostacoli apparentemente insormontabili: sfide continue. Per le quali non sapevo di essere ben addestrata.

Ogni volta pero', l'immensita' degli spazi confusa con quel cielo che - uguale a tutti gli altri cieli - qui sembra davvero infinito mi ha riportato alla mente l'alba dei pescatori e il calore di quella manciata di felicita'.  Ho sempre saputo che, nonostante tutto, avevo qualcosa dentro di cui nessuno e niente poteva privarmi e che se ce l'avevo era perche' avevo saputo avere occhi per guardare e cuore per sentire tanto che quello sguardo si era perdutamente ed eternamente innamorato di quel risveglio intriso di quotidiana e  percio' eccezionale poesia.

Non avrei saputo innamorarmi di New York come lo sono se non avessi profondamente, malinconicamente, perdutamente e eternamente amato Napoli. Napoli mi ha insegnato l'umilta' che ti deve pervadere di fronte a spettacoli troppo immensi che servono solo a dirti che tu sei li' per onorare quella vita ogni secondo perche' e' un bene prezioso. Persino nel dolore. Persino nella rabbia e nella paura.

New York e' casa e rifugio e teatro dove finalmente recito come se fossi un'attrice protagonista e non una riserva il cui turno non arriva mai. Lo e', pero', solo perche' sono arrivata qui con lo stesso stupore di quella mattina di fronte allo spettacolo dei pescatori: ho fermato il motorino e ho guardato in silenzio sentendo in me la necessita' di arrendermi a quella bellezza, di dichiarare al mondo il mio essere qui per testimoniare con la mia quotidianeita' un po', un briciolo, un pezzetto, un alito di quella straordinaria cosa che e' la felicita'.

Ed e' questo a cui penso, ancora e sempre, quando il tumulto del cuore fa troppo rumore per lasciarmi dormire e ci sono troppe domande senza risposta e una distanza che ti separa dal tirare un sospiro e riposarti che sembra troppo lunga, ancora infinita. Penso che ci sono domande che non hanno necessita' di risposta. E che, senza questo momento di turbolente ansia, l'approdo sulla spiaggia non mi sembrerebbe altrettanto meraviglioso. come invece sara'.

Penso ai pescatori. Ai corpi argentei che sbattono in un ultimo tentativo di sopravvivenza. Alle voci, agli schizzi d'acqua, stivali di gomma, cartocci gialli e odore di caffe', rollii di barche, sospiri di mare, il Vesuvio e Capri: la vita e la morte insieme come solo a Napoli ti e' dato vedere se sai guardare. Se sai sentire. Altrimenti ti sembra solo una cosa come un'altra e tu solo un povero disgraziato costretto a svegliarsi troppo presto.

Mentre scrivo e' diventato giorno. Sento il silenzio, non ho mai pensato di sentire silenzio a New York. Forse sono venuta qui cercando cose che non c'erano. Ma ho ritrovato me stessa. E tanto basta.

Sunday, March 3, 2013

C'era una volta.

C'era una volta una giovane donna piena di sogni e aspirazioni. Suo padre, un comunista figlio di comunisti, l'aveva cresciuta a pane e senso del dovere. "I comunisti - diceva - devono essere i migliori in quello che fanno". Le insegnava anche che doveva imparare ad esprimere la sua opinione, tenere la schiena dritta e lottare. Lottare sempre senza stanchezza per i suoi ideali.

Quella giovane donna studio', si laureo' con lode e inizio' la sua conquista del mondo. Il sogno era quello di fare la giornalista ma ogni volta che arrivava vicino a realizzarlo qualcuno le chiedeva "ma chi ti raccomanda"? In un caso poi, quando le sembrava proprio di aver toccato il cielo con un dito, le dissero anche "sai, per restare dove stai devi fare sesso con me". La ragazza ci mise 4 mesi per capire che era vero, prese 25 chili, fu minacciata e perse tutto cio' che pensava di aver costruito.

Pensava. Perche' di li a pochi anni avrebbe perso molto di piu'. Per aver detto altri no. Sempre no e ancora no.

Quando quella ragazza fece le valigie e se ne ando' via, con il dolore, la rabbia, la paura e nient'altro, aveva pero' guadagnato, per sempre, senza se e senza ma, il diritto alla sua liberta', e la liberta' assoluta di essere cio' che voleva.

Quella giovane donna un giorno ha disattivato il suo account di Facebook dopo aver avuto una colica, due settimane di insonnia e molte Plasil ingurgitate. Non ce la faceva piu'. Ma poi Chiara le ha detto "e io come faccio?" e tanti le hanno scritto. Amici. Tutto cio' che per lei conta. Amici che le fanno sentire il loro affetto e la loro stima sempre. Anche quando, come dice Alessandra Vignolo, fa volare i cestini perche' pensa di aver sempre ragione. Spesso lo pensa. Sbagliando ovviamente ma pronta a chiedere scusa.

Quella signorina dunque ha deciso di ritornare chiarendo qualche punto. Per se' stessa prima che per gli altri

1) la mia presenza sui social e' relativa a me come persona. Non alla "giornalista". La giornalista e' brava e fa cio' che deve quando deve. Cioe' quando scrive articoli. Rifiuto categoricamente questa idiozia che i giornalisti debbano essere giornalisti SEMPRE. Che noi facciamo la cacca diversamente da voi? No. La facciamo uguale e puzza uguale. E ci innamoriamo, odiamo, ci incazziamo, sbagliamo e facciamo cazzate come tutti. E a volte ci mettiamo pure le dita nel naso. Ma se siamo bravi scriviamo buoni articoli quando lavoriamo. E io penso di farlo piu' che dignitosamente. In piu', diciamolo, io non sono cio' che faccio. Quindi, sulle mie pagine scrivo cio' che mi pare senza necessita' di dovermi confermare bipartisan, senza opinioni o senza passioni. E se mi piace Obama, lo ripeto fino a quando mi pare. Tanto quella passione nei miei pezzi non si vede. Perche' sono brava. Punto. Quindi non ascoltero' piu' coloro che nel tentativo di farmi sentire una merda, pubblicamente e privatamente, mi ricordano che "sono una giornalista". Io qui e sui social sono Angela. E se non vi piaccio, la porta e' aperta.

2) io penso, anzi sono convinta, che Grillo sia un pericolo per il nostro paese e che molti dei suoi elettori (non tutti) siano come delle amebe che ripetono in maniera idiota cio' che lui dice. Lo penso e lo scrivo. Con amici che hanno votato per il Movimento, ma non rientrano nella categoria delle amebe e hanno capacita' di pensiero proprio, discutiamo, anche appassionatamente ma senza mai offenderci. Io continuo a stimarli e credo che loro stimino me. Se venite sulla mia pagina per insultarmi, vi blocco e vi cancello. Io non vengo nelle vostre. Se pensate che vi insulti, lasciatemene la facolta' visto che lo faccio a casa mia. Voi insultatemi a casa vostra. E, soprattutto, tenete fuori la mia famiglia perche' se no smetto di essere buona quale sono. In fondo siamo ancora in uno stato di diritto.

3) in sei anni in USA mi sono fatta due campagne elettorali per Obama. Ho discusso con tantissimi amici che non lo votavano. Non sono mai volati insulti. Questa per me e' democrazia e vivere civile. Chi non e' in grado di esserne all'altezza accetti di buon grado di essere chiamato populista, demagogo e antidemocratico un po' fascista. Non sono offese, solo dati di fatto.

4) combatto Silvio Berlusconi da quando voi grillini (non quelli giovanissimi) stavate in silenzio a votarlo o a godere dei privilegi che oggi la crisi vi ha tolto. Bene, non ho mai ricevuto tanti insulti e minacce come da voi.

5) concludo, per ora, ricordando a chi mi suggerisce "con fare mafioso" che stando all'estero e' meglio farmi gli affari miei, che anche se non avessi un passaporto italiano, quale ho, nessuno, e dico nessuno, potrebbe indicarmi la via dei miei pensieri. A differenza vostra, che avete bisogno sempre di un capo che vi indichi cosa pensare, dire o sentire, io lo faccio in liberta'. E non pretendo che voi capiate questo concetto.

A

Thursday, February 21, 2013

certe notti

E poi ci sono le notti che ti separano dal nuovo giorno
Ma sembrano non finire mai

Le notti in cui il silenzio e' un amico troppo amato per abbandonarlo
e l'oscurita' un pericoloso sollievo

I pensieri si depositano, come sabbia dopo che un'onda la porta via, avvolgendola nella schiuma, in alto per poi riprecipitarla a terra.
Forte ma senza dolore
Pensieri silenziosi perche' urlanti

Pensieri che richiedono un perdono
un'assoluzione
da me verso me stessa

Perdonarmi.
Per la passione indomita
per la caparbieta'
per l'audacia

Per aver commesso un errore

Che ho pagato

E' tempo di assoluzione.

E di salutare il giorno.

Wednesday, January 9, 2013

Lettere

Cara zia Elena

e' da un po' che non ti scrivo ma sai bene che ogni cosa che scrivo e che penso la scrivo e la penso anche grazie a te.

Oggi ero a Central Park e cantavo a squarciagola "Meraviglioso". Una delle tue canzoni preferite. Non so quante volte me l'hai canticchiata, intervallando il racconto di quando stendevi i panni sulla terrazza di Fratte, con tante preoccupazioni, zio Arturo disoccupato, Silvana sempre malata, niente soldi e tu che ricacciavi dentro le lacrime e cantavi.

Quando la canto, e' sempre a te che va il mio pensiero. A volte alzo lo sguardo per cercare il tuo sorriso come tutte le volte che, da bambina, mi hai rimboccato le coperte e io ti guardavo e tu mi sorridevi e io sapevo che tutto era perfetto e mi sentivo come in un mondo di balocchi.

Ti penso tutte le volte che per non buttare il pane, preparo i crostini nel forno. Mi piaceva tanto, mangiarli da te. Li tenevi in quella scatola di latta e quando arrivavo nella tua cucina e tu aprivi quel mobile, io sapevo che stavano per arrivare. Buoni, un po' bruciacchiati che cosi' il burro sopra era ancora piu' buono.

Mi dicono spesso che ti somiglio. Lo vorrei. Lo spero. Come te, canto quando mi sveglio e quando ho il dolori nelle ossa mi metto buona e silenziosa aspettando che passino. Come te rido di cuore e mi innamoro di tutto e di tutti. Come te sono ottimista e coraggiosa. Anche se come te ho persino paura di dormire da sola a casa. Come te dico "mannaggia al demonio" e "la vita e' buffa" e racconto storie e vedo che la gente mi ascolta. A volte si commuovono.

A volte mi guardo allo specchio, vedo le rughe e sento la tua voce che mi dice "Angioletta, bella di zia, ma tu mi sembri una quindicenne".

So che sei fiera di me oggi e che tu sapevi, lo hai sempre saputo, che piano piano ce l'avrei fatta. E sei sempre stata li', al mio fianco, a stringermi la mano. So che mi guardi e ti fai anche un sacco di risate quando i guinzagli dei cani mi si attorcigliano intorno alle gambe e rischio di cadere. So che ti dispiace quando sono triste e mi mancate tutti voi perche' anche a te non piaceva sentire la mancanza. E la sentivi di tutti.

Sulla mia libreria c'e' una tazza piena di biglie colorate. proprio come quelle con cui passavi le ore a giocare con papa', quando eravate piccoli e non avevate nulla di piu. Pezzi di vetro colorati che non tagliano e fanno male ma rotolano riflettendosi negli occhi e lasciandoti la felicita' in fondo al cuore.

Quando i pezzi di vetro affilati mi si sono conficcati sotto i piedi o, peggio, dritti nel cuore, io ho preso le biglie fra le mani e ho giocato, aspettando che passasse il dolore. Ed e' sempre passato.

Noi tutti, non solo io, ma tutti noi, i tuoi adorati nipoti, possiamo considerarci speciali per essere stati tanto amati da te.

Mi manchi. Ma anche no. Perche' sei nei miei gesti. Tu sei il mio ottimismo, la mia allegria e l'amore per questa buffa vita che mi hai insegnato a capire quanto fosse meravigliosa.

A.