Friday, March 24, 2017

Un giorno lungo dieci anni. New York, casa mia.

Era una primavera insolitamente fredda in Italia. E pensando a NY misi in valigia cose pesanti. Ricordo ancora come ero vestita per quel viaggio anche perche il mio bagaglio ando' perso e per un paio di giorni nn ebbi (se mai ne avessi avuto voglia) nessuna possibilita di cambiare maglione. Era a rombi verdi e lo avevo preso alla Benetton. Arrivata a New York trovai l'estate. Faceva cosi caldo che sembrava luglio. Mentre, seduta sul davanzale della finestra del mio appartamento del Queens, guardavo fuori piangendo, stravolta dalla mancanza di aria, quel sole mi avvolgeva, mi riscaldava, mi accarezzava. Quel sole e il libro "L'audacia della speranza" di Barack Obama, che cominciai a divorare, nonostante fosse in inglese, mi rimisero in piedi. Tremante ma in piedi. Abbastanza per arrivare a Pasqua, al primo brunch nel Village, agli occhi belli e ai sorrisi luminosi di Cinzia Lacopeta e alla neve che cadde improvvisa e mi trovo' come una bimba, con il naso attaccato ai vetri del ristorante, estasiata come se in ciascuno di quei fiocchi ci fosse un abbraccio di mia madre, uno di mio padre, una ragione per farcela, una speranza per non mollare. Il 27 marzo, dieci anni fa arrivai a New York. Fu doloroso come solo un parto puo' esserlo. Ve lo racconto un po'. Con pezzi di ricordi.

All'aeroporto c'era Michael ad aspettarmi. In genere, quando arrivi al JFK e' ancora giorno. Ma, in una maniera che mi sembrò "simbolica", fra la valigia smarrita e il cielo ancora post invernale, le ombre mi accolsero all'uscita. Persino Michael mi sembrava un estraneo in quell'atmosfera mista di stanchezza, rabbia, dolore. E paura. Per la prima volta, in tante volte che ero venuta qui, New York mi faceva paura. Anzi, no. Mi terrorizzava. Nel taxi, che mi portava in un quartiere in cui non avevo mai messo piede prima, parlammo poco. Dovevo controllare le lacrime. La casa era bellissima, la piu bella che abbia avuto in questi 10 anni e arredata con gusto. Tante finestre e tanto spazio. Una cucina con la finestra, come non mi e' piu capitato. Affacciava in strada: per mesi avrei, all'ora di pranzo, guardato le mamme tornare da scuola con i bambini vocianti e provato un dolore cupo e capito, per la prima volta, che cos'e' la nostalgia. Sul frigorifero, Tim, il proprietario della casa, mi aveva lasciato un biglietto che diceva "Benvenuta a casa Angie. Spero ti troverai bene qui. Ho fatto un po' di spesa (frutta, verdura, latte, biscotti, formaggi) nel caso ti venga fame. Chiamami se hai bisogno di qualsiasi cosa". Michael aveva fame e preparo' l'oatmeal: non sapevo nemmeno cosa fosse, ora e' una delle mie cose preferita. Quando andò a dormire, seduta sul divano, rileggevo il biglietto di Tim. Non ci eravamo mai incontrati. Era un amico di una conoscente che doveva andare a LA per fare una serie TV e cercava qualcuno che prendesse la sua casa. Eppure in poche righe aveva scritto - senza scriverlo - che sapeva come mi sentivo. Che mi abbracciava. Che potevo appoggiarmi alla sua spalla e piangere. Mi avevano raccontato di una citta' inumana e svogliata e di fretta. Nessuno, mi ha tenuta stretta stretta come i newyorchesi. Almeno per i primi anni. Loro mi hanno salvata dalla mia solitudine. Era il 27 marzo di dieci anni fa. Ero arrivata in America come tutti quelli che hanno un sogno, ma, lo ricordo, a lungo, molto a lungo, fu l'incubo della mia vita. Finche non mi lasciai amare. #1stdecadeinNYC

La casa di Jackson Heights era piena di luce. Nei miei successivi 6 traslochi in 5 anni, prima di approdare alla casa dove sono ora, non avrei quasi mai visto la luce o sentito il calore del sole sul viso. In compenso avrei trovato spesso compagnie indesiderate come scarafaggi e topi. Quella casa, pero', la casa di Tim, era uno specchio e trasudava serenità. La mattina successiva al mio arrivo usci e feci un giro: non era Napoli e io non ci volevo stare la'. Non mi piacevano le facce, non mi piacevano i negozi, non mi piaceva come parlavano, non mi piaceva quel supermercato dove non trovavo le "mie" cose. Tornai a casa ancora piu spezzata dentro. Ero venuta fin qui per non morire di dolore in Italia e stavo morendo di dolore. Aspettavo con ansia l'ora per chiamare a casa: sentire la voce di mia madre e mio padre. Raccontargli una verita che non esisteva. Raccontargli che ero contenta. Quando finivamo di parlare, tutta l'attesa si era trasformata in senso di colpa per tutte quelle bugie. Avevo mentito cosi poche volte ai miei genitori nella mia vita. Qualche giorno dopo, decisi di esplorare il giardino all'interno del palazzo, che vedevo dalla mia stanza da letto. Amo i palazzi con i giardini interni, ce ne sono molti a NY. Quello, pero', e' stato il piu' bello che abbia mai visto. Curato, pieno di fiori e con delle panchine sia all'ombra che al sole che sembravano avermi atteso per anni. Incontrai qualcuno del palazzo e sorrisi timidamente e andai via, piena di vergogna come se avessi violato la privacy di qualcuno. Come se quella non fosse casa mia anche. E no, non lo era. Non ancora. Quelle panchine diventarono mie amiche. Li consumai le pagine del libro di Obama e quello "yes we can" divento il mio monito. Quell'uomo, quel pazzo scatenato che aveva deciso di diventare il presidente degli Stati Uniti, mi parlava e mi arrivava al cuore. Decisi, in quel giardino, che se lui poteva farcela, potevo farcela anche io. Quando rimisi il libro a posto nel suo scaffale, il viso aveva preso un po' di colore e avevo imparato a fare la spesa al supermercato. Potevo provare a fare una telefonata: "comitato elettorale di Barack Obama", risposero. "Vorrei fare la volontaria", dissi. Mi capirono. Io li capii. Ero a casa. Ero a casa. Ero a casa. Me lo ridissi nella testa tre volte, come quando Martellini annuncio' che eravamo "campioni del mondo" al Bernabeu. Da dieci anni sono a casa. E non ho cancellato nessuna ferita. Perche la casa raccoglie e accoglie. Non cancella. #1decadeinNYC

1 comment:

Cora@world said...

....mi sono ora accorta di aver letto i post a ritroso. Prima gli ultimi scritti...ma la tua non è una soap opera che in qualsiasi puntata ti affacci capisci tutto quello che è accaduto o accadrà. Per cui dovrò rileggerli in ordine cronologico e seguire il filo o le mollichine che avrai lasciato per noi...cliff hangers per proseguire nella trama dei tuoi 10 anni a New York, 10 anni di vita vissuta pienamente. Tieni bene presente che se ti capiterà di voler essere indolente e prenderti pochi attimi di respiro non cambierà nulla New York resta li e ti aspetta. Love!