Ci sono serate a New York, o a Frattaminore, in cui puoi e devi scegliere se prenderti estremamente, terribilmente, noiosamente sul serio o se lanciare il cuore oltre l’ostacolo e dare spazio alla parte di te a cui sono sempre stati stretti i tailleur blu o neri, con scarpe abbinate e calza velata. Quella parte di me – che ama tutto cio’ che riempie armadi e scarpiere, reclama, pero’, il diritto di indossare il tailleur per andare al mercato la domenica se ne ha voglia.
E non e’ un discorso di “abito adatto”: in un paese in cui sugli inviti ti scrivono il “dress code”, perche’ sanno che ognuno si veste, normalmente “alla come gli pare”, io ho avuto conferma di essere una personcina mai fuori luogo, noiosamente in linea con il contesto e mai volgare (che e’ l’unica cosa che poi conti davvero), seppure sempre, ma sempre, originale.
Nel palazzo dove vivo, i miei vicini di casa (sí perche’ non e’ vero che i newyorchesi ti ignorano) si dilungano spesso nel farmi i complimenti per i capelli o per un paio di orecchini o per qualcosa che indosso, fosse anche il pigiama con il quale spesso uscivo con Dorothy di prima mattina, perche’ poi magari avevo al collo delle perle .
Ma sto divagando. Come sempre. Il punto e’ che, negli anni, e in particolare a New York, citta’ dove sembra che la liberta’ di espressione, in tutti i sensi e in tutte le forme, sia l’unico discrimine fra uno che resta “stranger” (straniero, ma anche strano) e una che diventa parte e cuore di quest’esplosione di umanita’ che chiamiamo la Grande Mela, ho, finalmente, liberato, dagli arresti domiciliari, la parte di me senza tailleur.
E, a quella parte, voglio molto bene, soprattutto perche’ conserva un titolo (a noi italiani piacciono assai i titoli), quello di giornalista, che per molti, significa “noioso e serioso tanto da annoiare qualsiasi referente che preferirebbe fare un ballo stretto con Donald Trump piuttosto che parlare con te”. Il trucco, che poi non e’ un trucco se no sarebbe finto, sta nell’avere sensibilita’ e capire chi abbiamo di fronte e in che contesto.
E, a quella parte, voglio molto bene, soprattutto perche’ conserva un titolo (a noi italiani piacciono assai i titoli), quello di giornalista, che per molti, significa “noioso e serioso tanto da annoiare qualsiasi referente che preferirebbe fare un ballo stretto con Donald Trump piuttosto che parlare con te”. Il trucco, che poi non e’ un trucco se no sarebbe finto, sta nell’avere sensibilita’ e capire chi abbiamo di fronte e in che contesto.
Cosi, lunedi sera, sono andata alla Casa italiana per assistere a una conversazione con Francesco De Gregori, condotta mirabilmente da Stefano Albertini Mussini che e’ riuscito a farlo uscire un po’ fuori dalla sua “comfort zone” tanto da rivelarsi persino simpatico (come sospettavo). De Gregori, di cui alcune canzoni sono ancora oggi nel mio Ipod e che ho adorato in maniera profonda, ha detto, a un tratto, che lui risulta antipatico perche’, spesso, i suoi fan, gli si avvicinano e gli chiedono un autografo, e poi cominciano a raccontargli fatti propri, che a lui non interessano. Facile capire perche’ possa risultare antipatico, no? Eppure a me questa disincantata onesta’, mi ha fatto sorridere di gusto e ho continuato ad ascoltarlo con intatta attenzione.
Quando sono andata via, pero’, “il principe” (come lo chiamava, per prenderlo in giro, Lucio Dalla) si era fermato a chiacchierare con alcune persone del pubblico, mentre fumava una sigaretta. Mi sono fermata anch’ io e pensavo sempre di piu’ che, in fondo, era proprio simpatico. Cosi, mentre conversava con una ragazza sulla sua esigenza di cantare le vecchie canzoni in maniera diversa (mentre noi spesso siamo affezionati alle versioni originali), la parte di me senza tailleur ha esordito “comunque, ad un cantautore che ha cantato “Napul’e’” al San Paolo, con Pino Daniele, in napoletano imperfetto ma meraviglioso, e’ concesso tutto”. E’ stato cosi’ che, De Gregori, mi ha guardato e ha sorriso e ha detto “ eh si Pino mi correggeva sempre il napoletano” e con mia emozione incontrollabile ha accennato una strofa di una canzone che, per un napoletano, e’ un testamento di dolore e luce.
“Senti – gli ho chiesto, allora, ormai a briglia sciolta – ma tu sei antipatico, Pino era antipatico, come avete fatto a sopravvivere per un’intera tournee?” “Beh forse perche’ non eravamo davvero cosi antipatici”. E da li’ siamo partiti a discutere degli stereotipi secondo cui noi napoletani dobbiamo dire una barzelletta ogni due parole e far ridere pure quando abbiamo passato un guaio serio. E di come Toto’ Troisi, lo stesso Pino, non fossero dei caciaroni volgari eppure immagine della Napoli piu adorata. “Tu comunque – ha detto lui – sei proprio una di quelle che mi vede e mi vuole raccontare la sua vita”.
Ho sentito tutti ridere. “E certo – ho risposto rapida – e se non ne approfitto quando ho la fortuna di avere un’audience grazie a persone come te, quando la devo raccontare?” Lui ha riso di cuore, come un napoletano, senza fare bordello. Allora gli ho detto grazie, per essere venuto a New York e ho aggiunto “Francesco, il San Paolo applaude pochi che non parlino perfettamente napoletano: te, per esempio, e un ragazzo che si chiama Diego Armando Maradona”. Ha sorriso ancora e mi ha stretto la mano dicendo “E forza Napoli”.
Mi sono allontanata e ho acceso l’Ipod ed e’ partita “Bellammore”. Per caso. Ho sorriso. Ho guardato mia madre fra le stelle e ho realizzato che De Gregori, poi, aveva raccontato la mia vita, prima che io la raccontassi a lui “Gettero’ questo mio cuore fra le stelle un giorno, giuro che lo faro’ … e, fra la vita e la vita e la morte, scegliero’ l’America”.
http://www.isegretidimatilde.com/e-qualcosa-rimane-conversazione-con-francesco-de-gregori/