Di tutto, piu' forte di tutto, piu' doloroso di tutto, ricordo quella valigia blu, nella stanza da letto dei mie genitori, che impediva a mio padre di addormentarsi sereno. Perche' quando il dolore e' troppo forte rischi di soccombere, allora ti fermi su un particolare piccolo, minuto, superfluo, come una valigia. Che tante volte era stata gioia, nei miei viaggi, e in quei giorni era simbolo di una fine.
Finiva la mia vita. Quella che non mi dava piu' gioia. Quella che mi umiliava quotidianamente. Quella che mi vedeva fallita. E non solo per colpa mia. La mia "colpa" era stata essere persona perbene e credere nel valore umano, come chiave per aprire porte sul futuro. Ero stata colpevole a non vedere. A ripetermi che non possiamo "fuggire tutti". A convincermi che l'Italia e' il posto piu' bello del mondo e a tormentarmi con il senso di colpa di voler costruire una lontananza fra me e gli affetti piu' cari: le radici.
Finiva la mia vita e non ne avevo un'altra davanti. Non avevo nulla se non quello a cui stavo rinunciando. Non avevo volti, ne' voci, ne luoghi dietro i quali nascondermi per non farmi vedere piangere. Per non svelare, in tutta la sua terrificante enormita', la mia paura.
Finiva l'illusione. Iniziava l'incognito. Ancora oggi pochi credono che qui non avessi nulla. E lo ripeto: nulla. Nessuno. Niente. Il vuoto. Ma, speravo, che almeno ad ingoiarmi per sempre fosse New York, una citta' straniera e non casa mia, non la terra mia che mi stava ricoprendo il capo a poco a poco seppellendomi viva.
Ricordo la sera prima della partenza: zia Elena che mi diede il suo regalo con un biglietto che ho sempre sulla scrivania incorniciato: "buon viaggio piccola grande donna. E quando non sei serena, pensa a me e lo sarai". Quante volte ti ho pensata in questi nove anni, cara zia Elena! C'erano le mie amiche di sempre: Antonella, Rosanna, Lina, Paola e quel ciondolo portafortuna che conservo preziosamente. C'era allegria come se in fondo stessi andando a fare un viaggio. E c'ero io che tacevo la mia paura. La mia voglia di dire "vi prego, fermatemi". E gli occhi di mio padre: senza luce. Lui solo, l'unico che avrebbe voluto credere diversamente, aveva capito tutto. Sapeva che quello non era un viaggio breve.
Quanto ho odiato New York in quel mio arrivare. Quel suo avermi attirata a lei, con la lusinga, e il suo aspettarmi al buio senza nemmeno un abbraccio. Quante lacrime ho pianto in quella notte? E nelle notti a seguire, con la sola voglia di avere la forza di tornare indietro. Per smettere di sentire tanta paura.
Quanto odiavo New York: con i suoi supermercati immensi dove non riuscivo a trovare nulla. Con quel caldo che mi sfiniva. Con quella metropolitana piena di treni che non volevo prendere. Me ne sono stata chiusa in casa per giorni. Ad aiutarmi ancora una volta, la valigia blu che si era persa: cosi non avevo niente con cui cambiarmi.
Dovevo iniziare a vivere e non avevo nulla da mettermi. E non avevo neppure uno straccio di coraggio per farlo.
Dopodomani saranno nove anni. Ho smesso di odiare New York e me stessa. Ho smesso di odiare l'Italia. Ho iniziato a vivere e mi e' piaciuto sempre di piu'. Mi sono ricordata chi sono e mi sono ricostruita: pezzo dopo pezzo, passo dopo passo, con una fatica feroce, lacerante e che mi ha fatto e mi fa sanguinare. Ho smesso di lottare contro. Ho iniziato a lottare per. Per me prima di tutto. Per le malinconie che mi vivo come segno di una vita piena e fortunata. Per l'amore. Per le soddisfazioni. Per la serenita'. Per le pazzie. Per le nostalgie. Per i diritti. Per la politica. Per la speranza. Per la felicita'. Lottare per. Per resistere quando voglio mollare tutto. Per capire che e' solo momento per riposarsi un attimo e prendere fiato. Per accettarmi. Per volermi bene. Per sopravvivere perche la sopravvivenza e' vita. Per imparare a piangere. Per metabolizzare la morte. Per convivere con le mancanze. Per far muovere le dita su una tastiera. Per sapere che Natale e Pasqua passeranno e questo coltello di solitudine smettera' di girarmi dentro. Per sognare. Per rimboccarmi le maniche. Ho smesso di lottare contro. E ho imparato a lottare per. E ho smesso di dire "se" e ho imparato a dire "quando".
Dopodomani saranno nove anni. Mi alzo in piedi e mi applaudo. Lo merito. Perche' nulla mi e' stato regalato, ma cioe' che ho meritato mi e' stato dato.
Non e' mai troppo tardi per imparare ad essere felici. Se si comprende e si accetta che la felicita', molto spesso, passa attraverso il piu' grande dei dolori, quello della fine. La felicita' e' passaggio. Come la Pasqua, come Passover. La felicita' e' passaggio: dalla morte alla vita. Ed io sono felice.
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