Friday, April 24, 2015

Gli occhi dei migranti


Ieri lavoravo a raccogliere appunti per questo mio post pubblicato su Wired questa mattina e - allora - mi sono dilungata a fare un po' il punto della situazione. Con qualche informazione in piu'. 

La prima volta che misi piedi a Ellis Island mi ero trasferita qui da poco. Sentivo ancora fortissimo il peso della solitudine e della lontananza. Nel corso di una visita guidata organizzata per i giornalisti stranieri, vissi, passo dopo passo, le tappe tipiche di un immigrato che sbarcava qui: le attese, la visita medica, quella specie di uncinetto che usavano per controllare gli occhi, le panche dove ci si sedeva prima di rispondere all’interrogatorio: 29 domande in tutto, sempre le stesse. E poi quella scala, larga, con un corrimano a dividerla in due metà: alla fine di ciascuna, un corridoio, uno per chi andava in New Jersey, uno per chi andava a New York. Non ho mai sentito parlare tanto di Ellis Island come in questi giorni, come dal momento dopo in cui un migliaio di “poveri cristi” ha perso la vita, non su una croce di legno, ma nella solitudine del mare, catapultati da una nave bestiame, riempita fino all’inverosimile. Ellis Island e gli italiani immigranti. Ellis Island e quelle foto che raccontano un dolore che è sempre lo stesso, a distanza di secoli, nonostante il colore della pelle diverso: il dolore di attraversare la morte, per poter vivere. Le foto delle navi che arrivavano a Ellis Island sono amaramente simili ai barconi che feriscono quotidianamente il nostro Mediterraneo: barche piene di occhi. Occhi dolenti ai quali è già stato tolto tutto e non resta altro che quel lancio di dadi, quella partita d’azzardo. Per una strana ragione, Ellis Island è diventata il simbolo di un contrasto feroce in questi giorni; il luogo geografico lontano che segna la separazione fra il razzismo e il non razzismo. Come se fosse l’unico attraverso il quale il dramma italiano sia passato lasciando pezzi di cognome e identità mai più ricostruite. La “diaspora italiana”, infatti, non è stata solo Ellis Island. Dal 1861 al 1985, 29 milioni e 36mila italiani emigrarono in altri paesi dell’Europa e in Nord America, Sud America, Nord Africa, Africa dell’Est, Australia e Nuova Zelanda. Poco più di 10 milioni di questi fecero ritorno in patria, mentre quasi 19 milioni restarono all’estero. Il numero totale degli italiani nel mondo è di circa 70 milioni di persone. Non fu solo l’America, dunque. Non fu solo Ellis Island a diventare testimone del nostro dramma di poveri, affamati, diseredati alla ricerca di una seconda opportunità. Fu il mondo intero, inclusi quei posti da dove oggi arrivano coloro che, troppo spesso, il mare divora. Eppure è Ellis Island ad essere diventato il “pomo della discordia”. Forse perchè qui, il museo dell’immigrazione permette di preservare una memoria che, altrimenti, si andrebbe perdendo. Una memoria che include la “selezione” rigorosa alla quale, quei poveri cristi, venivano sottoposti. Vale la pena, però, rivedere un po’ il racconto che di questo luogo si fa, per sostenere l’ipotesi che anche noi abbiamo subito la nostra quota di umiliazione. Senz’altro non c’erano tappeti rossi e fanfare ad accogliere chi arrivava a Ellis Island ma, prima di tutto, medici frettolosi, pronti a rimandare a casa chi appariva malato o non in grado di badare a se’ stesso. Eppure il tempo trascorso sull’isola, prima di poter procedere il proprio viaggio verso “il sogno americano”, era compreso, in media, fra le  2 e le 5 ore. Tutti dovevano dimostrare di possedere una somma di denaro di non meno di 18 dollari, per poter essere ammessi e solo il 2% in totale, si vide rifiutare l’accesso. Molti degli italiani arrivati qui, o i loro figli, divennero famosi: da Fiorello La Guardia a Mario Cuomo, da Frank Sinatra a Bruce Springsteen. Forse per questo, Ellis Island sembra, nella nostra fragile memoria, l’unico avamposto che la nostra tragedia umana ha dovuto superare. Quel pomeriggio, dopo la visita a Ellis Island, presi un caffè con un’amica che vive qui da molti anni in clandestinità. E’ giovane, allegra tranne quando mi dice che essere clandestina significa non poter mai tornare in Italia, nemmeno per un’emergenza. A New York, però lavora e ha una vita “regolare”. Lei non è passata da Ellis Island, ormai chiusa, e non è arrivata su un barcone ma è clandestina esattamente come ciascuno di quei poveri cristi morti in mare, sui quali tanta “filosofia” si sta facendo. E allora sfatiamo qualche “mito” che sento ripetere da giorni: 1) noi non eravamo migranti. Lo siamo. 2) noi non abbiamo arricchito l’America (o l’Argentina o l’Australia) se non nella misura in cui questi paesi ci hanno lasciato lo spazio di farlo. Noi non lasciamo nessuno spazio a nessuno. 3) nessuno paragona l’Italia agli Stati Uniti: gli immigrati, infatti, si fermavano nella quasi totalità a New York o si “allungavano” in New Jersey o in Pennsylvania. Al massimo il raffronto va fatto fra una nazione europea e tre stati di un paese. 4) noi non eravamo diversi: scapavamo dalla disperazione. Di diverso avevamo solo la pelle bianca, ma abbiamo vergogna ad ammetterlo. 5) moltissimi hanno lavorato duramente, sottopagati e sfruttati, come gli immigrati che arrivano in Italia. In più abbiamo portato con noi il crimine organizzato, quella mafia, camorra, ndrangheta che oggi guadagna sul “commercio” dei clandestini.  6) noi non ci siamo integrati più degli altri: ancora oggi ci sono immigrati italiani che parlano poco o niente l’inglese e frequentano solo ed esclusivamente persone della propria etnia.  Non a caso qui c’è una “lingua”, il broccolino, che era l’italiano/inglese inventato dai nostri antenati. 7) integrarsi, poi, non significa diventare uguali. In una terra laica e liberale, gli immigrati italiani hanno conservato intatte le proprie tradizioni, anche le peggiori: la festa di San Gennaro, da sempre, è infatti controllata dalle famiglie mafiose tanto che, regolarmente, i sindaci di New York, anche di origine italiana, la disertano. 8) sono circa 400mila i turisti italiani che visitano New York ogni anno: insieme all’ESTA proporrei una visita obbligatoria a Ellis Island. Perchè la memoria deve essere basata su fatti concreti e non su una letteratura che ci costruiamo ad hoc, per provare a rendere più dignitosa quella che possiamo chiamare solo miseria umana.