Wednesday, June 6, 2018

Null'altro ci e' chiesto, se non resistere

Null’altro ci è chiesto, se non resistere..

Ho scritto questo racconto lo scorso inverno – ed e’ stato pubblicato nel volume “La rivincita del cuore” curato da Emilia Ferrara.
Eppure, mi sembra scritto oggi, nel momento in cui abbiamo piu’ bisogno di ricordarci che il sole sorge sempre. Anche dopo la piu’ lunga delle notti.
L’8 giugno, Dorothy manchera’ da un anno alla mia vita. Ogni mattina, appena apro gli occhi, la cerco. Per qualche secondo, tutto diventa cupo. Lei era la mia stella cometa. Senza di lei ho compreso, per la prima volta, il senso della solitudine.
A lei, alla mia Dorothy, compagna della mia resistenza, dedico questo racconto. E la promessa di amare ancora e sempre, proprio per onorarne la vita.
“Resisti, Dorothy. Resisti. Non mi lasciare. Resisti. Non aver paura”.
Ho sempre amato volare. La prima volta che presi un aereo fu per andare a Salonicco. I treni erano stati parte della mia infanzia e adolescenza. Papà non aveva mai preso la patente e nemmeno mamma e, quindi, non avevamo un’auto e giravamo in treno.
L’aereo arrivò tardi. Molti miei amici avevano gia’ attraversato i cieli di mezzo mondo, mentre io ancora ben salda a terra, ad aspettare il mio momento. Quando allacciai le cinture, mi addormentai all’istante e mi risvegliai a destinazione. Mi succede spesso quando sono profondamente felice e agitata allo stesso tempo: io dormo. Poi non ho dormito piu’: sempre seduta al finestrino, ho guardato cieli, montagne, oceani, nuvole, albe e tramonti e me ne sonno innamorata ogni volta. Ho guardato lo skyline di New York per prima volta, atterrando a Newark, sentendo, immediatamente, dentro di me che, quella, era casa mia.
Solo una volta, ho volato come se stessi precipitando all’inferno. Ci stavamo trasferendo a New York. Dorothy nella stiva, per rispetto a regole di viaggio crudeli e disumane. Una compagnia aerea che prometteva grandi cose, invece, sembro’ impegnarsi per uccidere il mio cane e la mia felicita’. Con un ritardo alla partenza di tre ore, senza annunci, senza spiegazioni, senza il minimo di rispetto, il mio cuore era gia’ impazzito pensando a Dorothy chiusa in quella gabbia, in quella stiva rovente. Con le lacrime agli occhi e tutta la disperazione del mondo chiesi a uno steward di darmi notizie: lui con una risata ironica e in dialetto mi disse che i cani erano ormai morti e che quindi era meglio farmene una ragione. Ci sono momenti nella vita in cui detesto la sciatteria volgare dell’ironia obbligata e fuori luogo, violenta e volgare.
Viaggiai per nove ore piangendo e parlando con Dorothy. “Resisti Dorothy. Non morire. Non aver paura. Non mi lasciare”. All’aeroporto JFK, in barba a tutti i regolamenti, la compagnia aerea abbandono’ il trasportino in un posto qualsiasi, senza che nessun membro dell’equipaggio aspettasse – come previsto – il mio arrivo. Trovai Dorothy quando ormai non avevo piu nemmeno la forza di avercela a morte con qualcuno se non con me stessa. Mi gettai a terra in ginocchio e lei lancio’ un urlo che fece accorrere i poliziotti che – con estrema gentilezza – ci aiutarono a raggiungere il taxi.
Quando arrivammo a casa, la nostra casa newyorchese, Dorothy non riusciva a stare in piedi. Ci vollero mesi per riprendersi. Per tornare felice. Ma riuscimmo e, quando le ho detto addio, lo scorso giugno, dopo 14 anni, ho avuto la certezza che di quel viaggio buio e senza cielo, avessi piú memoria io di lei. Lei, lo spero, si e’ addormentata rivedendosi correre nella neve di Riverside Park, con il cappottino rosso e le orecchie appuntite, a seguire il richiamo della vita.
Quel viaggio, tuttavia, piu’ di tutto, mi ricordó il valore basilare della resistenza. Della nostra capacita’ di diventate roccia e resistere agli attacchi che arrivano dall’esterno e che potrebbero frantumarci l’anima in pezzi troppo piccoli da rimettere insieme.
Pur essendo cresciuta onorando la Resistenza, con uno zio partigiano e una famiglia comunista, di buoni comunisti, non ne avevo mai compreso il senso profondo e quotidiano come in quel viaggio che avrebbe potuto annichilirmi.
Se sono venuta a New York, come ho fatto, contro ogni consiglio e logica, l’ho fatto perche’ ho resistito alla tentazione di arrendermi a un fallimento impostomi da un paese che non mi proteggeva piu. Non aveva spazio per me. Soprattutto come donna fiera
Se mi sono rimboccata le maniche ricominciando da zero e’ stato perche’ ho resistito alla comoda alternativa di accontentarmi, vivendo la vita decisa da altri per me.
Se ho letto come primo libro, mentre ancora le lacrime della solitudine mi accompagnavano nelle ore del giorno, dopo settimane dal mio arrivo, “L’audacia della speranza” di Barack Obama, e’ stato perche’ ero determinata a trovare una voce che mi accompagnasse in quell’atto di resistenza, in quella rivoluzione del vivere che avevo iniziato.
Se, con il portafogli sempre troppo vuoto e malinconie sempre instancabilmente in agguato, ho continuato a innamorarmi, a cogliere l’immensita’ di un abbraccio avvolgente di due volti che guardano la neve e ne respirano il silenzio e’ stato perche’ ho resistito alla volgarita’ di lasciarmi imbarbarire dalle difficolta, di tradire l’essenza di cio’ che mia madre e mio padre avevano plasmato.
Se sono sopravvissuta, quasi indenne, alla morte di mia madre senza aver avuto quel minuto “di giustizia” per salutarla e per dirle grazie, grazie di tutto e grazie per sempre, e’ perche’ lei mi aveva insegnato, nelle ore della febbre di bambina, che poi il dolore passa. Se resistiamo, passa. E diventa giorno. Sempre.
Se non ho desiderato fare i bagagli in una delle notti più cupe della vita di questo paese, quando Donald Trump e’ stato eletto, lasciando attonita e spaventata ogni persona di buon senso e di profonda umanita’, e’ perche’ ho saputo subito che bisognava resistere per arrivare all’alba di un nuovo giorno, come mille volte e avvenuto e avverra’, dopo tragedie umane inenarrabili: il fascismo, il nazismo, la schiavitu’, i campi di concentramento.
Da quel viaggio senza cielo in cui, per nove ore, implorai Dorothy di non arrendersi e di resistere, ho resistito mille volte alla tentazione di forme di resa molto simili alla morte.
A volte e’ difficile. Fanno male i polsi. E i denti si stringono. E manca l’aria. Allora bisogna guardare dal finestrino, anche nel viaggio piu’ dolente, perché il cielo sara’ comunque lí con il suo azzurro e all’alba seguira’ sempre un tramonto, ma, poi, un chiarore ancora.
La resistenza e’ l’essenza del vivere. E si puo’ vivere solo se negli occhi si e’ accumulata tanta bellezza da riuscire a vederla anche attraverso le piu spaventose tenebre.
Non si resiste per non morire. Si resiste per continuare a vivere anche nella morte. Perche’ quando resisti, hai in mente solo la vita.

Sunday, March 18, 2018

Gli struffoli - una storia d'amore

Il suono della sveglia arrivò come una pugnalata. Strano perché non dormiva da un pó, giusto per portarsi avanti con l’odio verso la sua vita e quel doversi alzare con il buio per andare al lavoro. Perché la passione diventa un blablabla senza senso, quando e’ la vigilia di Natale e fuori e’ buio pesto e uscire da sotto le coperte richiede tutto il coraggio che ci vuole ad attraversare il ghiaccio della propria infelicita’. “Che poi basterebbe una stufa” - penso’, con il naso nascosto sotto il piumone giallo e la borsa dell’acqua, ormai gelata, ancora attaccata ai piedi. Eppure amava quella casa, la sua prima “da sola”, senza coinquilini, senza fila al bagno, senza tazze sporche nel lavandino. Pero’ fredda assai e con spifferi da tutte le parti.
Uscire in strada era quasi una liberazione. Almeno c’era quella curva di collina affacciata sul mare, il golfo piu’ bello del mondo e il Vesuvio verso il quale sentiva rispetto. Mannaggia alla morte, quanto amava quella citta’! In maniera carnale. Se gli fosse capitato a tiro, pero’, chi diceva che a Napoli fa sempre caldo, gli avrebbe fatto una paliata a notte a notte. La Vespa, tanto per non cambiare, nemmeno ci pensó a partire e cosí lei si avvio’ per la discesa, lemme lemme, guardando la passione impressa in quei primi chiarori che squarciavano le ombre. E quando il motore riprese coraggio e calimma, come sempre, le sembro’ musica e comincio’ a cantare.

Al semaforo di Mergellina si fermo’ al rosso, cosi, giusto per cazzimma e per fare incazzare quello dietro che doveva tenere proprio fretta assai. Lei cantava e guardava i pescivendoli che – come da tradizione – erano gia’ li’, a esibire capitoni e fasulari per le tavolate della Vigilia. “Signuri’, signuri….” La voce la distolse dal ricordo di un mercato di tanti anni prima, con la mano stretta a quella di sua madre, imbronciata come ora, ma senza protestare che se no, poi, Babbo Natale si stizziva e non si fermava a portare i regali. “Signuri – disse ancora la voce – ma voi perche’ cantate?”. Lei lo guardo’ e fu stupita dalla bellezza che ne’ le rughe, ne’ i segni del mare, avevano minimamente intaccato. “Come perche’ canto?” rispose curiosa, mentre il semaforo aveva cambiato colore altre tre volte. “Signuri’, a quest’ora del mattino si canta per due motivi: o p’ammor o per raggia”. Voleva rispondere per rabbia, ma si vergogno’ perche’ c’era tanta bellezza intorno che la rabbia non c’azzeccava niente e lei, fra tanti difetti, aveva un pregio grosso assai, sapeva sempre mettere insieme le cose, pure quelle piu’ distanti, in modo che sembrassero un capolavoro. Come quando cucinava e s’inventava cose, come aveva visto fare a sua madre per anni: lei addirittura inventava sulle invenzioni.
“Canto per amore” e, dicendolo, le sembro’ ironicamente la verita’ piu’ assoluta che avesse mai pronunciato. Per amore. Cos’altro poteva mai sentirsi dentro, fino alle viscere, fino a stringerle il cuore e l’anima facendola stare in quella citta’ da sola, provando a seguire la sua passione, il giornalismo, senza potersi permettere nemmeno una stufa, se non amore? Amore folle e meraviglioso. Amore che in napoletano raddoppia la “m” che se no, sembra solo una sbandata da quindicenni. “Signuri’, lo volete un po’ di caffe? Jamm, fermate sta Vespa che vi state congelando”. Fu un attimo, un colpo di testa, come quei gesti che si compiono di riflesso, senza pensare e, la Vespa era gia’ parcheggiata, senza nemmeno la catena, che tanto “siamo quattro di noi qua”. “Signuri’, ecco il caffe’. Mi dovete scusare che e’ gia zuccherato ma io me lo porto da casa nel thermos perche’ mi piace piu’ di quello del bar”. Lei sorrise. A Napoli aveva imparato che era sacrilegio mettere lo zucchero dopo il caffe’, una di quelle cose che se la fai, ti guardano carichi di pieta’ e scrollando le spalle pensano “maro’ sti’ furestieri, manc’ o’ caffe s’ann comm se bev”.

Mentre sorseggiava il liquido bollente, guardo’ quella luce che rischiarava il golfo, la calma, l’aria gia’ densa di vita, di quello scorcio di vista che era la sua forza, la sua ispirazione, la sua passione. Nemmeno si accorse che Alfredo, cosi si chiamava il pescivendolo, si era allontanato. Solo pochi passi. Torno’ con un tovagliolino di carta, appena socchiuso nel palmo della mano, come fosse un vassoio di fine argenteria pieno di ambrosia. “Signuri’, mangiatevi due struffoli. Mia moglie li ha fatti ieri sera perche’ lo sa che sono il mio dolce di Natale preferito”. Glieli passo’ con una tale solennita’ che, per un momento, penso’ che si sarebbe trasformata, come per magia, in Campanellino e avrebbe finalmente cominciato a volare spruzzando polvere magica intorno. Erano piccoli e pieni di miele e con sopra code di cioccolato colorate e qualche confetto. Nemmeno sotto tortura avrebbe potuto aprire la bocca e, invece di riempirla con uno di quei napoletanissimi decori natalizi, dire “veramente, a me non piacciono”. Sarebbe stato come dire a un bambino che la Befana non esiste e non e’ nemmeno la signora del piano di sotto, quella brutta e sempre incazzata, e i giocattoli li comprano mamma e papa’ o al massimo li mandano le Ferrovie dello Stato, come quando lei era bambina, perche’ suo papa’ era ferroviere.

Sarebbe stato come quando, lui, l’amore senza nemmeno aggettivi, l’aveva guardata e le aveva detto: “Ho deciso di accettare quel lavoro a Parigi, vado via. E ho bisogno di andare via da solo”. Glielo aveva detto mentre il mare, agitato da un temporale estivo, sembrava voler arrivare fino alla loro camera, dove, seduti sul bordo del letto, come se non gli appartenesse piu’ il diritto, concesso agli amanti, di mettersi comodi nel mezzo, stavano spezzando via le catene della passione, sciogliendole a una a una nel solvente della paura del domani. Lei lo ascoltava e ascoltava il mare, e lo implorava di venire a prendersela e a trascinarla via, lontano. Lontano dalle parole che uscivano da quella bocca che l’aveva sempre baciata di miele e ora l’avvelenava. Ascoltava lui e ascoltava il mare. “Signuri’, e mo’ perche piangete?”. Con il tovagliolino stretto in mano, non si era nemmeno accorta di essere volata via, lontano, come Campanellino, come se quegli struffoli avessero fatto, davvero, gia’ un miracolo. “No niente, e’ solo il vento”, menti’, sapendo che Alfredo non l’avrebbe mai contraddetta, perche’ aveva gia’ capito tutto quando le aveva chiesto perche’ cantava.
“Angela” disse “mi chiamo Angela”, rispondendo a una domanda che era rimasta silenziosa nell’aria, sospesa in quel momento che sembrava così irreale, eppure era la cosa piu’ vera vissuta negli ultimi mesi, tanto da sentirla fin dentro alle viscere. Come se il mare, poi, se la fosse davvero trascinata via quella notte, portandola fino a li’, fino a quel momento: un viaggio breve da Posillipo a Mergellina, eppure lunghissimo e doloroso. Gli struffoli, intanto, si scioglievano in bocca come quei baci di miele con cui lui l’aveva amata per anni di luce, mai fioca. Adorata. Baci di miele e diavoletti di cioccolata colorati.

“Angeli’ – disse Alfredo – lo sai qual e’ il segreto degli struffoli? Devono essere piccoli, cosi il miele li ricopre meglio e quasi diventa una cosa sola con la pasta fritta. Mia madre li faceva cosi: noi a casa soffrivamo la fame, tanta fame. A Natale, pero’, gli struffoli erano il nostro dolce e il nostro gioco. Coi miei fratelli e sorelle aiutavamo a fare le palline e mamma’ friggeva; ci passavamo una serata per realizzare quella montagnella che mettevamo sul piatto “buono” e che doveva durare dalla Vigilia fino a Santo Stefano. Quella mia moglie mica li sapeva fare. Quella mia moglie e’ tanto brava, ma e’ di Genova. Io pero’ l’ho fatta esercitare e mo’ e’ la maestra degli struffoli, proprio come se fosse una di noi”.
Lei ascoltava e mangiava e pensava a sua madre e al fatto che non le aveva mai dato soddisfazione con gli struffoli dicendole sempre, quasi in malo modo, che le facevano schifo. Sua madre che la tormentava sempre con i capelli spettinati e che, pure, quando le veniva la febbre forte, di gola, passava le ore a cambiarle gli impacchi di aceto e patate sulla fronte. Forse in quel momento stava gia’ sveglia ad arrotondare struffoli, come sempre. Per garantire a tutti, a una famiglia grande e allargata, che il Natale fosse sempre “secondo tradizione”, perche’ non c’e’ nulla di piu’ rassicurate delle cose che si ripetono, come le favole, sempre uguali, sempre bellissime.

E mica era colpa di sua madre o di Alfredo o di quel mare che odorava di sale e alghe, se poi lui le aveva negato la sua bocca di miele, se le aveva tolto il cielo e le aveva rimesso un tetto basso sulla testa, se le aveva tolto l’infinito e le aveva bloccato lo sguardo con un muro alto. Se le aveva preso la vita, senza nemmeno ucciderla, che sarebbe stato meglio. L’aveva ammazzata, lasciandola viva. Non era colpa di nessuno, pero’. Era solo conseguenza inevitabile della felicita’. Quella felicita’ che l’aveva travolta all’improvviso mentre leggeva, e lui si era fermato sulla porta e le aveva detto “vuoi bere?” “si grazie”, aveva risposto lei. Lui, aveva fatto per andarsene e poi si era girato e aveva aggiunto, come fosse cos e’ nient , “a volte penso proprio di amarti”. E lei lo aveva guardato e aveva spostato gli occhi sulla pagina di libro, senza distinguere piu’ una sola parola, solo concentrata a ritrovare il battito di quel cuore impazzito, provando a placarlo almeno un po’, perche’ non voleva che lui ne sentisse il rumore, voleva che nessuno sentisse quel rumore che poteva spezzare un incantesimo neppure atteso. Lui l’amava. E la bocca sapeva improvvisamente di miele, anticipando i baci a venire. No, non era colpa di nessuno se, ora, era come morta. Perche’ l’amore non e’ mai innocuo, nemmeno quando dura una vita intera; quando l’amore arriva, ti scava dentro, ti plasma, ti riempie, ti avvolge, ti solleva, ti da’ un senso, si scioglie come miele, a bagnomaria, prima di confondersi con le palline fritte e diventare altro, altro da se’. No, l’amore non e’ mai innocuo. Solo gli sciocchi di cuore possono avventurarsi nella stagione dell’amore pensando di uscirne illesi. Per fortuna. Nel non uscirne illesi, c’e’ tutto il senso di tanta felicita’. E forse Alfredo, vedendola ferma li’ al semaforo, mentre cantava alla luna che tramontava nel golfo, l’aveva vista cadavere e aveva voluto riportarla in vita.
In quel momento, infatti, mentre il miele ancora le faceva attaccare la lingua ai denti, senti’ per la prima volta, dopo mesi, di essere viva. Dolente. Ferita. Tagliata a pezzi, anzi. Vuota. Eppure quel vuoto era tutto, perche’ era da riempire come ora lo stava riempiendo Alfredo con quel suo miracolo natalizio. In quel pugno di struffoli aveva ritrovato, suo malgrado, il sapore di miele dei baci.

E sorrise.


Si era fatto giorno. I clienti avevano cominciato ad affollare la strada. Abbraccio’ Alfredo, quasi sorprendendolo “Buon Natale e grazie”. “E di che? - rispose lui – tutti abbiamo sofferto la fame e, quando hai fame, ti senti come se fossi un po’ morto”. Risali’ in Vespa, prese il cellulare e compose un numero: “Mamma, stai facendo gli struffoli? Per me senza canditi. Ci vediamo stasera, ti voglio bene”.

(pubblicato nel volume "Sfogliatelle ed altri racconti" edito da "Compagnia dei Trovatori"

Wednesday, February 14, 2018

No non lo so cosa farei

No, non lo so cosa farei io se provassero a violentarmi. 

Ci penso poco e sempre, allo stesso tempo. Perche quando sei una donna, quella, crescendo, e' un delle tue piu' grandi paure. Nemmeno essere violentati se si e' uomini e' una "passeggiata" - sia chiaro. Eppure quando sei una donna e cresci, ti porti dentro questo peso enorme di non "fare la cosa sbagliata". Di non provocare. Di non fare una leggerezza anche se hai vent'anni. Di non essere troppo bella. Troppo felice. Troppo amichevole. O poco umile. Poco attenta. Poco accorta. Hai troppo seno o poco seno. Gonne troppo corte e pantaloni troppo stretti. Hai voglia di vivere, soprattutto, come chiunque e, quello, e' un peccato originale gravissimo. Probabilmente se qualcuno, con una pistola alla cintura, provasse a violentarmi, per citare Troisi, mi sbottonerei persino i pantaloni per la paura che mi venga fatto ancor piu male. Altro che urlare. Invece tutti hanno il decalogo di cosa fare e come reagire. Tutti hanno gia' deciso chi ha sbagliato, ancora una volta. A me non importa che siano carabinieri o preti. A me importano quelle frasi "se la sono cercata", "erano ubriache", "che si aspettavano". A me importa la condanna sociale che ricade sempre su di noi. Persino quando i fatti chiariscono che siamo davvero vittime. Ci sara' sempre chi dira' "pero' potevano stare piu' attente". Recentemente mi e' capitato un episodio di violenza. Ho avuto paura, ma me la sono cavata. Eppure ho sentito tanti, e non solo uomini, dirmi "la prossimia volta stai piu attenta". No, non ero ubriaca; no, non era uno sconosciuto e no, non l'ho provocato. Ma se una donna e' persona e si relaziona a persone di sesso maschile deve sempre, per la gogna mediatica, essere "piu attenta". Piu' attenta ad essere meno libera. Meno viva. Meno umana. E quel vostro illudervi che le vostre figlie, sorelle, madri non correrebbero questo pericolo perche' loro si "che stanno attente", loro si' che non "si comportano con leggerezza" e' la vostra peggiore condanna. La prigione in cui vi chiudete per non vivere e bisogna augurarsi che mai la vita vi "liberi" con un bagno di realta', perche soccombereste.
No, non so cosa farei se qualcuno mi violentasse. Non so se urlerei. Se allargherei le gambe per rendere tutto piu veloce (e voi non trovereste i segni di "violenza" perche' certo "solo" quella e' la violenza). Se tratterrei il fiato per non "sentire". Se preferirei morire piuttosto.
Ma so che dopo denuncerei. Nonostante voi. Perche' non permetterei - in condizione di sicurezza - di violentarmi ancora. 
Nonostante la violenza di "giornalisti" che pubblicherebbero il resoconto pornografico di quella violenza; nonostante le "giornaliste" che mi descriverebbero come una puttana. Io denuncerei. Perche' anche dopo, i criminali restereste voi e non io. Le vittime non diventano criminali mai. Voi si. Nel vostro essere complici.
No, forse non urlerei nemmeno io e spero di non scoprirlo mai. Ma vi guarderei sprezzante e fiera. Perche' chi violenta, anche se violentasse una prostituta incontrata in un bordello che decide di dire no "all'ultimo secondo", e' un criminale. LUI e' un criminale. Sempre. E noi io.

La miseria umana

La miseria umana

Il sudore mi colava dalla tempia mentre provavo a mantenere un equilibrio complicato in un piccolo autobus, stracolmo, che s’inerpicava lungo le curve ombrose che da Vietri sul Mare portano a Cava de’ Tirreni. La passione per il mare mi portava ad affrontare qualsiasi sacrificio, provando, allo stesso tempo a non infrangere leggi (quindi NO ai pulmini abusivi che non rilasciano titoli di viaggio e che ammassano viaggiatori sfidando ogni norma di sicurezza e di dignita’) e a non sottopormi a maratone improponibili nella calura estiva.
Quella goccia che scendeva lenta m’infastidiva; non piu’, tuttavia, del fracasso, di urla e parolacce, messo in scena, ad un passo da me, da un gruppo di ragazzine (e qualche maschio), di circa 15/16 anni che stavano mettendo a soqquadro l’intero autobus nell’indifferenza generale. A un tratto, una di quelle ragazze decise che era tempo di dedicare le sue attenzioni a un uomo che, silenziosamente, stava immobile, in fondo al mezzo, con la sua borsa che raccontava di chilometri macinati a camminare sotto raggi infuocati come la sabbia sotto i piedi. Lei, spavalda e cattiva, di quella cattiveria che sono le vite ormai gia’ bruciate dall’assenza di speranza sanno mostrare, gli si avvicino’ e comincio’ ad insultarlo, chiamandolo “negro di merda” e altre cose cosi. Lui, senza muovere nemmeno un muscolo, taceva guardando altrove.
Lontano, dove era la sua casa, quella vera che aveva dovuto lasciare, forse lasciandosi dietro persone amate, per scappare in cerca di un po’ di fortuna, e ora era qui, in un bus pieno di gente vinta dalla quotidianeita’, indifferente a quanto stesse accadendo. Il suo silenzio innervosi’ la ragazza che, come fosse respirare una boccata di aria fresca, comincio’ a schiaffeggiarlo e sputargli sul volto, continuando a insultarlo. Intorno, nessuno guardava. Ognuno continuava il suo viaggio nella miseria umana, senza voltarsi, senza prestare attenzione. Figuriamoci cuore. Fu un attimo: incrociai gli occhi di quell’uomo.
E mi vidi riflessa. Io emigrante in un paese straniero e lontano da qui, raggiunto alla ricerca di una via di scampo e lui, emigrante, in un paese straniero che lo odiava, raggiunto alla ricerca della sopravvivenza. I nostri occhi si incrociarono. E vidi il mio essere bianca nei suoi occhi scuri. Bianca che tornava dal mare dove aveva trascorso ore per diventare “nera”, in un bus stracolmo di odio. Nel mio paese lontano, io avevo questa pigmentazione di pelle che mi rendeva tutto meno doloroso. Lui era nato nero. Condannato a morte.
Intimai alla ragazza di smetterla. Lei mi guardo’ piena di odio. Mi insulto’. Le intimai di nuovo di smetterla. La gente, quei fantasmi pieni di rassegnazione che viaggiavano con me, mi guardarono pieni di pena e mi dissero di farmi i fatti miei. Come se quelli non fossero fatti miei. L’autista continuava la sua marcia in sprezzo alla situazione di pericolo che si era creata. Io composi il 113.
Per un attimo sbagliai. Digitai 911. Volevo essere a New York in quel momento. Perche’ anche a New York poteva succedere un episodio del genere, ma non avrebbe avuto lo stesso epilogo.
Chi mi rispose al telefono mi ignoro’. Intanto la banda di disperati aveva spostato le attenzioni su di me con minacce e insulti. Io ad alta voce – fingendo che mi fosse stato offerto soccorso – dissi dove eravamo e ringraziai per la sollecitudine. Funziono’. Si spaventarono. Chiesero di scendere e scesero. Io sudavo ancora, stavolta per la paura.
Ero attorniata da nemici. I miei concittadini erano miei nemici. Avevo persino perso il contatto con gli occhi dell’uomo che ora erano persi in un punto verso il basso. Verso il suo quotidiano inferno.
Il gruppo di disperati, cittadini italiani, che un giorno voteranno e costruiranno il futuro, scese e comincio’ a sbattere gli ombrelloni sul vetro del bus che miracolosamente non si ruppe. Ripartimmo. Tutti mi guardarono con disprezzo.
Nessuno mi guardo’ negli occhi.
Sia chiaro che la maggiore responsabilita’ e’ e resta di chi rimase fermo e indifferente. La colpa, la vera colpa e’ di chi mi disse di farmi i “fatti miei”. La miseria e’ di chi non guardo’ negli occhi me o l’uomo colpito e insultato.
Era domenica. Molti di quei viaggiatori, si sarebbero ripuliti e sarebbero andati a Messa a mostrare ai loro connazionali di essere buoni e umani. Loro che non sanno piu’ guardare negli occhi, presi a fissare il colore della pelle o la stoffa di un abito.
Quest’anno sono andata poco al mare. Mi manca la mia Vespa e la solitudine dignitosa del viaggiare senza miseria umana. Senza disperazione.
Eppure non ho smesso di guardare i miei simili negli occhi. Come si fa fra esseri umani

Wednesday, February 7, 2018

Profumo di Natale

Profumo di Natale


Ho sempre odiato febbraio. Il suo essere breve. Piovoso. Senza feste, anzi con una sdolcinata che mi da’ la scarlattina. Spesso, abbinata al Carnevale che mi mette tristezza. Per non parlare di Sanremo che non ho mai guardato, non per essere chic, ma proprio perche’ mi annoia.
Ho sempre odiato febbraio. Forse per quello decisi di partire per New York a marzo, per dare alla luce e alla primavera il compito di tenermi stretta in quel viaggio di solitudine, pieno di ombre e di inquietudini. Che fosse vita almeno intorno a me, visto che non lo era piu’ dentro di me. Febbraio, mese odiato, andava bene per fare i bagagli, salutare, provare a non sentire niente e, allo stesso tempo, sentire tutto cio’ che avrei dovuto tenermi dentro, nei muscoli, come ossigeno.
E cosi fu. Undici anni fa, attraversai i giorni di questo mese come se stessi attraversando il corridoio che ti separa da un labirinto dal quale non sai se sarai piu’  capace di uscire. No, non c’era gioia in quel partire. Non c’era ottimismo e non c’era esaltazione. C’era stanchezza e c’era disperazione. E la voglia di ritrovarsi.
Ho sempre odiato febbraio. Finche’ ho smesso di odiare qualcosa che fosse vita. Finche’, anzi, la vita mi ha sopraffatta con tale irruenza che non ha lasciato piu spazio all’odio. Rabbia a volte, spesso necessaria. Inquietudine, perche’ e’ sotto la mia pelle. Paura spesso. Ma non odio.
Non ricordo quando abbia smesso precisamente di odiare febbraio. Insieme al resto. Sono certa, pero’, che fu in una delle mie passeggiate a Riverside Park con Dorothy, lei con il suo cappottino rosso che conservo con cura con tutte le sue cose, nascoste agli occhi ma non alla mia vita. Sono certa che fu mentre scendevo per la discesa che dall’altezza dell’84ma strada, porta verso la rotonda e di lí, ancora, con altre scale, verso quel tunnel ombroso che alla fine ha l’argento del fiume, lo skyline del New Jersey e il profumo della liberta’.

Sono certa’ che fu in una di quelle discese, sempre fatte con passo lento, sempre frenata dalla paura irrazionale che le discese e le salite mi trasmettono sin da bambina. Un contrappasso, visto che la mia vita e’ come le montagne russe.
Sono certa che fu in una di quelle discese, mentre Dorothy rallentava il suo passo per non tirarmi a terra, che sentii forte l’odore di Natale. A febbraio.
L’odore solido degli abeti, cosi inconfondibile e amato. Eppure non c’era un solo abete intorno. Scoprii, seguendo l’odore, che, poco distante c’era un punto di raccolta di tutti gli alberi lasciati in strada dopo le feste, dove li riducevano in piccole parti con le quali, grazie ad una macchina, coprivano tutte le aiuole prive di erba per il freddo. Quello strato di pezzetti di abete diventa come una coperta che fertilizza e, intanto, diffonde il suo profumo, tutt’intorno, per giorni e giorni.
In una di quelle passeggiate come Dorothy, smisi di odiare febbraio. Anzi, ne presi solo atto. Come potevo, poi, davvero averlo odiato, quando a Napoli mi travolgeva, proprio nello stesso periodo, il profumo della mimosa, delle viole e delle fresie? Non le mimose di marzo, ma quelle di fine gennaio e inizio febbraio sono da sempre le mie piu’ amate, con quel loro profumo intenso, come se volessero annunciare al mondo che hanno vinto sull’inverno, sul freddo, sulle ombre. Con quel loro giallo e il velluto di quelle palline che poi cadono ovunque e ti tengono compagnia fino alla ripresa del sole che acceca.

Undici anni fa ancora odiavo febbraio. Questo viaggio alla ricerca di me stessa, mi ha restituito anche il mio amore per questi profumi. Per queste passeggiate. Solitarie quest’anno, ma con lei, Dorothy, comunque, sempre al mio fianco.

http://www.isegretidimatilde.com/profumo-di-natale/