Quando - finalmente - dopo un paio di giorni - la valigia arrivo' a Jackson Heights, il tempo era cambiato e, aprendola, mi accorsi che non sapevo nulla di New York e delle sue stagioni. Non sapevo nulla di quell'improvvisa estate accaldata che si trasforma in neve in un batter di ciglia. Non sapevo nulla di cieli grigi e cupi di nuvole che poi si squarciano in un sereno respiro d'azzurro, di brezza, di sole. Non sapevo niente di niente. Il resto di niente. Non sapevo che New York, mi avrebbe insegnato, pur scavando cicatrici invisibili solo all'occhio reso miope dal cinismo, l'ebbrezza della "non resa". Del non deporre le armi. Anzi, meglio. Nel deporle, se scariche, ricordandosi pero' che si hanno pugni, e calci, e morsi cosi che, pure quando non si puo' attaccare, ci si puo' difendere. Si puo non arretrare. Si puo' sopravvivere non per inerzia ma per fierezza. Non sapevo nulla di New York e di quei famosi angoli, dai quali poteva spuntare chiunque: Spike Lee o la fortuna, Robert De Niro o un lavoro, Sarah Jessica Parker o un paio di scarpe nuove con il 70% di sconto, Madonna e la voglia di allontanare le paure ballando. Non sapevo nulla di New York e per questo imparai che la primavera, a volte, richiede guanti cappelli e sciarpe che non avevo mai nemmeno posseduto. Figuriamoci portarseli dietro in primavera. La valigia, pero', mi porto' molto di piu. Mi porto' le immagini di quelle ultime settimane a casa dei miei, con mio padre che passandole di fianco, alla valigia, piegava gli occhi in una smorfia di dolore e tirava dritto verso il balcone a nascondere una lacrima. Di mia madre che avrebbe voluto avere una polvere magica e far entrare tutto in quei 23 chili: il mio corredo, una vestaglia calda, le tovaglie ricamate, tutti gli abbracci in cui mi avrebbe avvolta quando avrei avuto paura. Di tutte quelle cose, solo una riusci' a farla entrare. La piu' importante. E persino ora che il suo corpo non e' piu su questa terra, quegli abbracci li sento. Stretti stretti. Fra quei vestiti inadatti, per lo piu', e scarpe che mai avevano visto la neve, sbuco' la piccola caffettiera e un pacchetto di Kimbo. Me lo ricordo: seduta sul pavimento, tiravo fuori le cose e me le spargevo intorno con un senso di desolazione e inutilita'. Il caffe , quello si, mi scosse. Pensai che se potevo avere il caffe Kimbo e la mia caffettiera allora potevo avere tutto qui della mia vecchia vita e essere capace finalmente di vivere la nuova. Fu il primo momento di ottimismo. E arrivava da Napoli. Chiaramente. Ancora oggi, quando torno dall'Italia, mi siedo sul pavimento e spargo le cose intorno a me, mentre Dorothy aspetta che sbuchino le sue scorze di parmigiano. Ancora oggi, quando torno dall'Italia, cerco in quella valigia qualcosa che mi dica che ce la faro'. Domani, dieci anni fa, quella valigia avrebbe, come altre volte, attraversato l'oceano e, per la prima volta, si sarebbe persa. Come me. Perche' non ci si "ritrova" senza perdersi prima. #1decadeinNYC
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