Ci sono momenti fuggenti, per fortuna, come in inverno quelle sferzate di freddo sul viso che mi tagliano le labbra e feriscono gli occhi, in cui mi chiedo dove moriro’. Non come. Dove.
E quel pensiero, per un attimo, mi irrigidisce il cuore e rende piu’ profonda la ruga al lato della mia tempia, quasi sul sopracciglio.
Quando ero piccola, volevo fare l’hostess. Solo per volare. Per cambiare citta’, vivere in hotels sempre diversi e non avere un luogo con cui identificarmi. O, meglio, per averne tanti, cosi’ da lasciar vibrare quelle innumerevoli parti di me che sentivo, troppo spesso, mortificate nel loro afflato.
Mi dissero che ero troppo bassa. Fu la prima grande delusione: rinunciare a un sogno per una questione di centimetri. Ero bassa, ma avevo sogni alti. Come un flaneur, fin da ragazza, ho sempre percorso la geografia dei miei viaggi guardando in alto.
A Napoli, citta’ che ha sdoganato, dentro di me, ogni passione e mi ha reso libera, andavo a studiare nel Chiostro di Santa Chiara, dove respiravo maioliche e volte gotiche e m’innalzavo oltre il limite dei miei pochi centimetri.
Non c’e’ una citta’ che amero’ come Napoli. Mai. La amo tanto che non sento nemmeno la necessita’ di ribadire questo amore quando, la mia lontananza, viene usata come metro di giudizio, per rendermi, rubando respiro a Erri De Luca “neapolide”.
Senza Napoli io ora non sarei qui. E nel dirlo non c’e’ nulla che suoni in maniera negativa nella mia testa. Io ero nata per vagabondare, non per restare. Napoli mi ha dato lo spessore, la forza, l’orgoglio, la tenacia, la passione per farlo. Mi ha insegnato che non bisogna innamorarsi di un panorama per essere felici. Bisogna avere, invece, percorso i vicoli stretti e bui, con l’odore costante di creolina e il fresco estivo che diventa freddo invernale, senza mai vedere il sole. Io quei vicoli li ho amati. Mi hanno insegnato a percorrere senza paura i vicoli bui e inquieti della mia anima. In quei vicoli ho imparato ancora di piu’ a guardare in alto.
Verso l’azzurro.
Se dovessi sceglierne uno, sceglierei via Nilo. Non il piu stretto. Ma quello che ho percorso piu volte, a piedi e in Vespa, in un dialogo continuo e ininterrotto fra me e una citta’ che tutti dicono di amare ma pochissimi rispettano.Se un giorno, e non smettero’ mai di sperarlo, qualcuno decidesse di darmi la cittadinanza onoraria di Napoli (sono nata a Salerno) io sarei fiera come se mi avessero eletta presidente degli Stati Uniti.
O se mi avessero dato un Pulitzer. Se mi arrivasse la conferma ufficiale di cio’ che sono, senza se e senza ma, napoletana, io ne sarei onorata come le parole non possono descrivere.
Eppure, quando gli amici americani mi dicono che sono una “vera newyorchese” io sorrido fiera e orgogliosa. Ogni volta e’ come sentirmi dire “la tua statura e’ giusta, puoi fare l’hostess. Puoi volare”. Quando sono stata a Cuba volevo fermarmi a vivere li e lo stesso mi e’ accaduto con la Spagna o con Londra.
Perche’ Napoli mi ha insegnato che non hai bisogno di vedere il Vesuvio, come fosse una cartolina, per ricordarti la felicita’. Se l’hai vista, come io l’ho vista, nelle albe della vigilia di Natale, con i pescatori di Mergellina che vendevano frittura e capitoni o in quelle notti passate a giocare a Risiko in vico Fico, a due passi dall’Orientale, te la porti dentro e vedere altra
bellezza, amare altra bellezza, fare spazio ad altra bellezza e’ tutto cio’ che devi fare, per onorare Partenope.
Non so dove moriro’. So, pero’, ogni giorno, dove voglio vivere. Dove non mi mancano centimetri per volare. So che voglio vivere dove vivo. A New York. E mi basta.
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