Oggi - dieci anni fa - decisi di rinascere e presi un aereo che portava a New York. Non sapevo che per rinascere bisogna morire prima. L'ho imparato in questi anni, ogni volta che un pezzo di me si e' smarrito, mi ha abbandonato, si e' staccato provocando dolore insopportabile. Ogni volta che uno di quei pezzi e' stato sostituito da una nuova parte di me, un nuovo sentire, un nuovo agire, un nuovo porsi. Ho imparato anche che, poi, non si muore davvero e non solo nel senso fisico, per fortuna. Anche in quello spirituale. Bisogna solo arrivare al punto in cui si e' disposti a farlo, disposti a morire, disposti a non essere piu cio che si era prima, ad abbracciare il nuovo, l'ignoto, il diverso. Essere disposti ad arrivare al marigine di quel precipizio. Come la scena dell'ultimo Indiana Jones, quando deve fare un passo oltre il tunnel ma sotto i piedi c'e' solo aria e cielo e azzurro. Nella sua testa, quella di Indiana, la voce di suo padre gli intima "abbi fede, abbi fede". E sotto quel piede, invisibile, un ponte ne sostiene il cammino. Un ponte stretto. Ma ponte verso qualcosa. Ecco. Non bisogna morire davvero ma essere disposti a farlo, avendo fede. E se non sei religioso, come non lo sono io, la fede devi trovarla dentro di te e non fuori di te. La tua determinazione, scorta fra le spine di un cespuglio di rose selvatiche, deve diventare la tua fede. E la voce di mia madre, e' stata sempre e sempre sara' la mia guida "abbi fede, non ti arrendere". Vorrei averla con me ancora un giorno per ogni volta che mi ha ripetuto questa frase. Invecchierei abbracciandola ancora mille volte.
Di quella partenza non ricordo nulla. Nulla. Non ricordo l'abbraccio con i miei. Non ricordo il saluto a Dorothy. Non ricordo chi mi accompagno all'aeroporto e nemmeno quale fosse l'aeroporto. Non ricordo il volo, gli scali, i compagni di viaggio. Non ricordo di aver poggiato il naso sul finestrino come faccio sempre. Non ho memoria. Quando il dolore di un'esperienza e' troppo forte, spesso per sopravvivere, si dimenticano i dettagli. E pure, ricordo, senza nemmeno un alone di incertezza, ogni dettaglio dell'arrivo. E di quelle ore che seguirono. Da dieci anni circa pubblico, in questo giorno, il mio diario di quella sera.
“Ore 23.30. Il rullo dei bagagli gira a vuoto. Il mio bagaglio non c’e’. Benvenuta in America, Angela. “Tanto domani torno a casa”, mi dico mentre un nodo mi stringe la gola e lo stomaco. Voglio vomitare ma non posso, devo parlare con la tizia dell’ufficio “persi e ritrovati” per il mio bagaglio. Intanto, io mi sento solo persa e non so se li’, oltre al mio bagaglio, potranno ritrovare anche me. Non credo, la tizia e’ annoiata e detesta ripetere le cose, ma a quest’ora il mio inglese e’ rimasto indietro, insieme a tutta una vita vissuta e improvvisamente abbandonata. Il tassista mi chiede l’indirizzo, glielo dico e mi chiede che strada fare. Gli rispondo che scelga lui, tanto e’ tardi e non c’e’ traffico. Il fatto e’ che non ho assolutamente idea di dove sia Jackson Heights, ne’ il Queens. Fosse per me, potrebbe portarmi anche all’inferno e non me ne accorgerei. Anzi, penso di esserci gia’ all’inferno e la cosa pazzesca e’ che mi ci sono cacciata con le mie mani. La casa e’ bella e grande. Troppo grande, per consolare la mia paura. Quella paura che sarebbe diventata la mia migliore amica: paura di non farcela, paura di non avere i soldi per sopravvivere, paura della legge che non conosco, paura delle cose che non capisco, paura di morire di notte per strada e nessuno se ne accorgerebbe, paura di aver scelto disperatamente di vivere e di poter morire per questo. Sul tavolino, nel soggiorno c’e’ un libro: “My father’s dream”, di Barack Obama. Ho sentito parlare di questo senatore che vuole candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti e di quanto tutto cio’ sia considerato folle. Prendo il libro per sfogliarlo e intanto penso a mio padre e al suo sogno giusto di vecchio comunista: di un mondo giusto, di persone giuste e di figli che se fanno la cosa giusta saranno felici. Penso a mio padre e mia madre, li ho appena chiamati al telefono per dirgli che sono arrivata e che sto bene. Odio mentire ai miei genitori ma non posso dirgli che mi sento morire e che ho paura e voglio tornare a casa. Non posso. Allora ingoio le lacrime che, pero’, maledettamente continuano a scendere e mi sforzo di leggere qualche pagina… stavo facendo la conoscenza di Barack Obama, il futuro presidente degli Stati Uniti e l’uomo che in qualche modo mi avrebbe salvato la vita”.
Oggi, dieci anni fa, salvai la mia vita perche' fui abbastanza disperata e ottimista, allo stesso tempo, da essere disposta a morire per vivere. #1decadeinNYC
Di quella partenza non ricordo nulla. Nulla. Non ricordo l'abbraccio con i miei. Non ricordo il saluto a Dorothy. Non ricordo chi mi accompagno all'aeroporto e nemmeno quale fosse l'aeroporto. Non ricordo il volo, gli scali, i compagni di viaggio. Non ricordo di aver poggiato il naso sul finestrino come faccio sempre. Non ho memoria. Quando il dolore di un'esperienza e' troppo forte, spesso per sopravvivere, si dimenticano i dettagli. E pure, ricordo, senza nemmeno un alone di incertezza, ogni dettaglio dell'arrivo. E di quelle ore che seguirono. Da dieci anni circa pubblico, in questo giorno, il mio diario di quella sera.
“Ore 23.30. Il rullo dei bagagli gira a vuoto. Il mio bagaglio non c’e’. Benvenuta in America, Angela. “Tanto domani torno a casa”, mi dico mentre un nodo mi stringe la gola e lo stomaco. Voglio vomitare ma non posso, devo parlare con la tizia dell’ufficio “persi e ritrovati” per il mio bagaglio. Intanto, io mi sento solo persa e non so se li’, oltre al mio bagaglio, potranno ritrovare anche me. Non credo, la tizia e’ annoiata e detesta ripetere le cose, ma a quest’ora il mio inglese e’ rimasto indietro, insieme a tutta una vita vissuta e improvvisamente abbandonata. Il tassista mi chiede l’indirizzo, glielo dico e mi chiede che strada fare. Gli rispondo che scelga lui, tanto e’ tardi e non c’e’ traffico. Il fatto e’ che non ho assolutamente idea di dove sia Jackson Heights, ne’ il Queens. Fosse per me, potrebbe portarmi anche all’inferno e non me ne accorgerei. Anzi, penso di esserci gia’ all’inferno e la cosa pazzesca e’ che mi ci sono cacciata con le mie mani. La casa e’ bella e grande. Troppo grande, per consolare la mia paura. Quella paura che sarebbe diventata la mia migliore amica: paura di non farcela, paura di non avere i soldi per sopravvivere, paura della legge che non conosco, paura delle cose che non capisco, paura di morire di notte per strada e nessuno se ne accorgerebbe, paura di aver scelto disperatamente di vivere e di poter morire per questo. Sul tavolino, nel soggiorno c’e’ un libro: “My father’s dream”, di Barack Obama. Ho sentito parlare di questo senatore che vuole candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti e di quanto tutto cio’ sia considerato folle. Prendo il libro per sfogliarlo e intanto penso a mio padre e al suo sogno giusto di vecchio comunista: di un mondo giusto, di persone giuste e di figli che se fanno la cosa giusta saranno felici. Penso a mio padre e mia madre, li ho appena chiamati al telefono per dirgli che sono arrivata e che sto bene. Odio mentire ai miei genitori ma non posso dirgli che mi sento morire e che ho paura e voglio tornare a casa. Non posso. Allora ingoio le lacrime che, pero’, maledettamente continuano a scendere e mi sforzo di leggere qualche pagina… stavo facendo la conoscenza di Barack Obama, il futuro presidente degli Stati Uniti e l’uomo che in qualche modo mi avrebbe salvato la vita”.
Oggi, dieci anni fa, salvai la mia vita perche' fui abbastanza disperata e ottimista, allo stesso tempo, da essere disposta a morire per vivere. #1decadeinNYC