Forse e' vero. Qualcuno lassu', in qualche posto nascosto al mio sguardo, pure spesso errante attraverso il blu e le nuvole o il nero piu' profondo nonostante la trapunta di stelle, mi ama. Qualcuno mi ama e mi afferra ogni volta che sto per cadere. A volte cado lo stesso ma quelle braccia forti che non posso sentire rallentano la caduta e la schiena resta dritta e le ossa non in frantumi.
Lassu' dove i nostri sogni vivono come le mimose sugli alberi a gennaio, qualcuno mi ama e mi aiuta a ritrovare la strada.
Non so se e' un dio, qualsiasi nome abbia, o mia zia o ora Pierpaolo o tutti. Ma qualcuno mi ama. E mi aiuta a ritrovare la direzione.
Anche vivere a New York, ovviamente, mi aiuta. Qui ho imparato i punti cardinali: so se sono a est o a ovest e posso dirigermi a sud senza sbagliare. E so guadare a Nord e alla mia stella. Quanto mi insegna questa citta'. Come dice la mia amica Ivana, sono un'altra persona. Migliore. E immodestamente condivido. Perche' ho ancora la voglia di imparare e di rimanere stupita come un bambino di fronte ad una giostra che gira e quel cavallo che torna sempre li', in quello stesso punto, con tutti i suoi colori.
Oggi e' stata una giornata difficile. Sono molto stanca e ho bisogno di vacanze. Prima pero' mi aspettano un paio di settimane toste, un po' da vagabonda e con tante decisioni da prendere. Passeranno, le decisioni si prenderanno e i piedi nella sabbia calda mi ridaranno tutta l'energia di cui ho bisogno.
Fra le cose che mi ha insegnato New York e' che c'e' sempre una via d'uscita se non hai paura e sei disposto a lavorare. Ma, anche, se impari ad ascoltare davvero e fino in fondo il tuo cuore. Per ascoltare, pero', abbiamo bisogno di silenzio: totale. Dobbiamo zittire la mente, i pensieri, le paure, le necessita', le urgenze, le inquietudini, le malinconie, le gioie, gli entusiasimi e tutto cio' che potrebbe portarci fuori pista. Per ascoltare, per il tempo che serve, abbiamo necessita' di silenzio. Ho trovato questa dimensione facendo yoga, in questa stanza con 42 gradi e 50% di umidita'. Come ha detto stasera l'istruttrice "se riuscite a fare yoga qui, New York non puo' farvi nulla di male". Ho sorriso. No, New York non puo' farmi nulla di male. Anzi.
Non puo' perche' io la amo di un amore cosi' profondo che mi porta ad ascoltarla, senza sforzarmi di vederla con lo sguardo dei miei pregiudizi e nemmeno dei deisderi. New York la guardo com'e', come i suoi viali larghi che portano all'acqua che non sai mai se e' il mare o il fiume e nemmeno importa.
Mentre il mio corpo sudava come mai credevo possibile e i miei muscoli si sottomettevano a posture inverosimili, ho capito da dove ricominciare ancora una volta. Ho capito quali erano le mie priorita' e la strada per realizzarle. In un minuto che mi e' sembrato un anno, tutto mi e' sembrato semplice e le decisioni gia' prese e, se non fosse costata ulteriore fatica, avrei sorriso.
Tornando a casa, poi, ho traovato la mail, bellissima di Renata. Renata va al liceo e ha chiesto la mia amicizia tramite Facebook. Mi da del lei. Stasera, fra le altre cose mi ha chiesto "non si sentiva spaesata quando si e' trasferita a New York"? (mi ha detto che aveva trovato per caso il mio blog e che da un'ora leggeva "senza stancarsi"). Ho pianto. Non piangevo da una settimana. La necessita' di sopravvivere ad un lutto ti fa concentrare sulla necessita' di abolire le lacrime come un fastidio, come quei fiori secchi che restano sulle tombe e puzzano e mettono infinita tristezza. Invece le lacrime possono essere belle come una rugiada, come le gocce del mare, come la pioggia fresca d'estate, come lo champagne per un'occasione speciale. Quelle di stasera, quelle "per Renata" erano lacrime belle, anche se sembravano uguali alle altre. Anche se dentro c'era l'assenza di Pier Paolo, le paure, le sofferenze e le incertezze di una vita difficile che meriterei piu' semplice ma ho scelto difficile per testardaggine e cuore.
Le lacrime per Renata sono state lacrime di "ok ricominciamo". Non ho mai pensato che qualcuno potesse leggere qualcosa che io scrivo per un'ora e "non stancarsi" e scoprirlo con tanta dolcezza ha ridato un senso a tutto.
Ero spaesata Renata. Ero spaesata e terrorizzata e a volte lo sono ancora. Ma se sei dove volevi essere e, mentre il terrore e lo spaesamento ti divorano, lasci un po' di spazio al silenzio, allora sentirai il tuo cuore indicarti la strada. Sempre. A New York e ovunque.
A New York e' solo piu' semplice perche' qui si vive di pane e di sogni che diventano realta' e sembra che ci sia sempre un nuovo appiglio al quale aggrapparsi e continuare. Se ne hai davvero voglia.
E poi c'e' chi da lassu' ci ama. Se sappiamo lasciarci amare. E se sappiamo amarci profondamente.
Questo post e' dedicato a Renata Giordano, ai suoi sogni, alle sue speranze, alla sua voglia di imparare, al suo amore per New York e a quelle lacrime che stasera, in una serata bellissima, mi fanno gli occhi piu' belli.
E questo post e' per tutti voi che mi leggete, a volte piu' attentamente di altre, perche' questa e' la mia vita e raccontarla a volte e' complicatamente doloroso. Ma da' un senso alle stelle.
one day, I finally decided that I wanted to be happy. And I moved to New York, with few stuff and the love of my life: Dorothy. My journey is still amazingly challenging but I learnt that I am unstoppable. And everybody should be the same.
Wednesday, July 28, 2010
Saturday, July 24, 2010
la quiete dopo la tempesta
Ieri sera un tornado ha attraversato New York e la mia vita. La furia della natura era incredibile, eppure ipnotizzava lo sguardo mentre faticosamente cercavo di chiudere le finestre e tranquillizzare Dorothy. Lei odia la pioggia.
Si fa fatica a chiudere le finestre quando quando un tornado arriva a spazzarti via l'equilibrio e a scompigliarti le pagine di una vita intera.
Stamattina sono uscita e la citta' mi ha regalato la piu' bella giornata di sole che chi, come me, ama il sole, potesse desiderare. Non c'era traccia del tornado se non i qualche eccesso di foglie ai bordi delle strade, stranezza di una stagione di poco vento.
Cosi come il dolore, come un tornado, ha oltrepassato finestre e porte e barriere e protezioni, anche il sole e' tornato. Gli lascio asciugare le lacrime, seccare le ferite, riscaldare il cuore.
Il sole non cancella ma lenisce. Come l'abbraccio di tutti ha lenito la disperazione.
Un'amica mi ha scritto, da milioni di chilometri, "chi va, solitamente e' piu' felice mentre noi che restiamo indietro siamo pieni di tristezza". Cecilia e' la persona piu' piena di vita che io conosca e le sue parole sono state come una carezza.
In questi giorni ho continuato a scrivere per lavoro e per sopravvivenza. Sforzandomi di cambiare il tono.
Posso solo dire, citando un poeta di quelli veri, che non "sono mai stata tanto attaccata alla vita".
Si fa fatica a chiudere le finestre quando quando un tornado arriva a spazzarti via l'equilibrio e a scompigliarti le pagine di una vita intera.
Stamattina sono uscita e la citta' mi ha regalato la piu' bella giornata di sole che chi, come me, ama il sole, potesse desiderare. Non c'era traccia del tornado se non i qualche eccesso di foglie ai bordi delle strade, stranezza di una stagione di poco vento.
Cosi come il dolore, come un tornado, ha oltrepassato finestre e porte e barriere e protezioni, anche il sole e' tornato. Gli lascio asciugare le lacrime, seccare le ferite, riscaldare il cuore.
Il sole non cancella ma lenisce. Come l'abbraccio di tutti ha lenito la disperazione.
Un'amica mi ha scritto, da milioni di chilometri, "chi va, solitamente e' piu' felice mentre noi che restiamo indietro siamo pieni di tristezza". Cecilia e' la persona piu' piena di vita che io conosca e le sue parole sono state come una carezza.
In questi giorni ho continuato a scrivere per lavoro e per sopravvivenza. Sforzandomi di cambiare il tono.
Posso solo dire, citando un poeta di quelli veri, che non "sono mai stata tanto attaccata alla vita".
Tuesday, July 20, 2010
spegnete le stelle, prosciugate gli oceani
Mi sono svegliata con gli occhi appiccicati per il troppo piangere.
Ogni osso dolente mi ha ricordato che io sono viva. La gola, come intasata da una manciata di pezzi di vetro, mi ha urlato che io sono viva. Il peso sul petto che mi rende difficile il respiro che pure viene fuori, mi ha ricordato che sono viva.
E che tu non lo sei piu'.
E' da ieri che cerco di dirmi quelle atroci parole ma non ci riesco.
Da ieri, invece, ti vorrei chiedere se ti ricordi quando da bambini cantavamo a squarciagola "Anima mia" e tu sbagliavi tutte le parole perche' eri il piu' piccolo. Una testa bionda e uno sguardo imbronciato.
Da ieri, vorrei ridere ancora una volta con te ricordando quel natale in cui per sbaglio, i nostri genitori buttarono via la busta sbagliata e dentro c'erano tutti i regali.
Da ieri, ti vorrei dire che ora vado in una casa piu' grande, non proprio cosi' centrale, ma piu' grande e cosi' potrai venire a trovarmi.
Da ieri, rileggo quelle lettere che ci siamo scritti. Quelle scritte con il peso di due che hanno attraversato la morte. Ognuno la sua e si sono ritrovati.
Da ieri, vorrei chiederti scusa per qualche mia durezza quando non sapevo con quali parole parlarti.
Da ieri, vorrei riascoltare con te quei vecchi pezzi hip hop che ci tenevano incollati alla Virgin di Times Square per ore
Da ieri ti vorrei rivederti incrociare le braccia perche' hai fraddo, sempre un po' freddo.
Ma tu, da ieri, sei morto.
E questo e' tutto cio' che devo ripetere al mio cuore che non vuole sentire.
E poco importa se resterai in un ricordo. E poco importa se resterai in una foto. Poca importa se resterai in quelle lettere e in quella musica.
Oggi non c'e' musica, non ci sono parole anche se le scrivo. Oggi non c'e' consolazione.
Oggi c'e' la tua maledetta assenza che non so come colmare.
E ti dico cosa sento perche' vorrei sapere cosa senti tu adesso.
Cosa vedono i tuoi occhi.
Cosa respira nel tuo cuore.
Vorrei chiederti se hai avuto paura perche' noi ne abbiamo, molta di piu' da quando sei andato.
Mentre ci lasciavi, sei venuto nei miei sogni e mi hai abbracciata e mi hai detto "sono felice". Mi chiedevo perche', ieri, prima di saperti andato.
Felice.
Vorrei lo fossi. Lo sarei anche io. Nonostante il freddo che sento sulla pelle.
Ti aspetto a New York, la citta' che adoravi. Ora che sei respiro puoi essere ovunque. Con tutti noi che ne avremo bisogno.
Scendo. Ti aspetto davanti ad un hamburger. Non fare tardi.
Ogni osso dolente mi ha ricordato che io sono viva. La gola, come intasata da una manciata di pezzi di vetro, mi ha urlato che io sono viva. Il peso sul petto che mi rende difficile il respiro che pure viene fuori, mi ha ricordato che sono viva.
E che tu non lo sei piu'.
E' da ieri che cerco di dirmi quelle atroci parole ma non ci riesco.
Da ieri, invece, ti vorrei chiedere se ti ricordi quando da bambini cantavamo a squarciagola "Anima mia" e tu sbagliavi tutte le parole perche' eri il piu' piccolo. Una testa bionda e uno sguardo imbronciato.
Da ieri, vorrei ridere ancora una volta con te ricordando quel natale in cui per sbaglio, i nostri genitori buttarono via la busta sbagliata e dentro c'erano tutti i regali.
Da ieri, ti vorrei dire che ora vado in una casa piu' grande, non proprio cosi' centrale, ma piu' grande e cosi' potrai venire a trovarmi.
Da ieri, rileggo quelle lettere che ci siamo scritti. Quelle scritte con il peso di due che hanno attraversato la morte. Ognuno la sua e si sono ritrovati.
Da ieri, vorrei chiederti scusa per qualche mia durezza quando non sapevo con quali parole parlarti.
Da ieri, vorrei riascoltare con te quei vecchi pezzi hip hop che ci tenevano incollati alla Virgin di Times Square per ore
Da ieri ti vorrei rivederti incrociare le braccia perche' hai fraddo, sempre un po' freddo.
Ma tu, da ieri, sei morto.
E questo e' tutto cio' che devo ripetere al mio cuore che non vuole sentire.
E poco importa se resterai in un ricordo. E poco importa se resterai in una foto. Poca importa se resterai in quelle lettere e in quella musica.
Oggi non c'e' musica, non ci sono parole anche se le scrivo. Oggi non c'e' consolazione.
Oggi c'e' la tua maledetta assenza che non so come colmare.
E ti dico cosa sento perche' vorrei sapere cosa senti tu adesso.
Cosa vedono i tuoi occhi.
Cosa respira nel tuo cuore.
Vorrei chiederti se hai avuto paura perche' noi ne abbiamo, molta di piu' da quando sei andato.
Mentre ci lasciavi, sei venuto nei miei sogni e mi hai abbracciata e mi hai detto "sono felice". Mi chiedevo perche', ieri, prima di saperti andato.
Felice.
Vorrei lo fossi. Lo sarei anche io. Nonostante il freddo che sento sulla pelle.
Ti aspetto a New York, la citta' che adoravi. Ora che sei respiro puoi essere ovunque. Con tutti noi che ne avremo bisogno.
Scendo. Ti aspetto davanti ad un hamburger. Non fare tardi.
Sunday, July 18, 2010
Mio padre e' un grande uomo
Ci sono momenti, mentre anche una citta' come New York si spopola e allora ti sembra che la solitudine attacchi anche te, come una tagliola dietro il polpaccio che non ti ammazza ma ti fa tanto male da non farti camminare, in cui ti fermi, anche mentre stai correndo nel parco o viaggiando in metropolitana o facendo spesa al supermercato, ti fermi, dicevo, e provi a ripercorrere la strada all'indietro per scoprire come tu sia arrivata fin qui, fino ad oggi. Con ancora un sorriso a rischiararti il viso che sembra non voler trovare posto alle rughe.
Ci sono giorni in cui forse e' cosi' tanta la paura del domani che ti volti indietro per rassicurarti che non ci fosse davvero un appiglio al quale afferrarsi, che non ci fossero davvero ipotesi ragionevoli per cui restare, che quell'umiliazione profonda alla quale ero stata biecamente e continuamente sottoposta non fosse cosi profonda ne' cosi bieca.
Ci sono giorni in cui, con distaccato battito del cuore che sembra non voler nemmeno piu' mutare d'accento al ricordo di cio' che lo stava incartapecorendo, cerco una conferma alla concretezza dell'essere qui. Dell'essere ancora viva e finanche felice. Seppure nella mia frammentata e postdatata esistenza.
E allora ricerco una traccia, uno scritto, una parola che io abbia inciso come sangue sulla pietra per la mia memoria. Per non dimenticare. Ho scritto sempre. Cio' che non so dire, lo scrivo. Anche a chi, forse, non ha piu' occhi per leggere perche' il velo di tristezza che potrebbe appannare lo sguardo renderebbe deboli e disarmati. E chi controlla la vita degli altri attraverso un potere malato e disumano, deve avere paura delle parole che possono essere come l'eco di un mondo in cui una stretta di mano contava ancora come la parola d'onore di una persona che non e' d'onore ma agisce onorevolmente.
E ho trovato questa. Scritta per una di quelle persone che hanno reso ridicoli i miei sogni. Ma non ucciso.
"Mio padre e’ un grande uomo, uno di quei vecchi comunisti che rendono onore al significato piu’ alto e “religioso” di un’ideologia morente che ha dato speranze a milioni di uomini e donne nel mondo.
Mio padre, quando eravamo bambini ci diceva che dovevamo essere i migliori a scuola altrimenti non avremmo potuto reclamare il rispetto dei nostri diritti: ci avrebbero definito comunisti fannulloni
Mio padre aveva messo in cucina uno di quei calendari pieno di foto di bambini africani divorati dalle mosche e dalla fame e se non ci piaceva qualcosa ci indicava le foto e ci diceva di vergognarci.
Mio padre ci raccontava che da ragazzo, con la fame che lo devastava, trovo’ un portafogli pieno di soldi e felice lo porto’ a casa e che mia nonna, vedova, lo porto’ in chiesa al prete perche’ ne trovasse il proprietario. Che non regalo’ nemmeno una mancia.
Mia nonna, racconta mio padre, si era messa attaccata sulla parete la foto di Mussolini e mentre girava povero cibo in un pentolone, insufficiente per tutti, alzava lo sguardo e sputava sulla foto del Duce, bene dritto sulla faccia
Mio nonno, contadino, analfabeta, racconta mio padre, la sera si puliva le scarpe con un panno e andava a scuola serale per imparare a leggere. Aveva sogni piccoli ma li inseguiva.
Mia zia, giovane ragazza, lavorava alle Cotoniere di Fratte e andava a piedi da Cava dei Tirreni tenendo bene a bada chi provava a mancarle di rispetto.
Mio padre e mia madre ci hanno cresciuti bene, ci hanno fatto studiare e io sono stata una bambina e una ragazza felice. E ancora lo sono.
Non hanno mai fatto una vacanza. Ma mio fratello e’ andato all’altro capo del mondo, in Colombia, per adottare un bambino di quattro anni, Cristian, che oggi parla con l’accento romanesco e gioca alla play station come tutti i bambini (o quasi) dell’altra parte del mondo.
Una famiglia come tante la mia. Lo so. Politicamente corretta. Di quelle dimenticate che Santoro non invita alle sue trasmissioni su Napoli.
Mio padre stamattina, per l’ennesima volta, mi ha chiesto se io fossi davvero sicura di aver fatto tutto il possibile per MERITARE un lavoro e se fossi stata abbastanza umile e perbene. Abbiamo litigato. E detesto litigare con mio padre. Lo amo troppo. Ma lui non comprende il perché del mio fallimento, di questa mia quotidianeita’ senza un lavoro che possa definirsi tale e di quel curriculum, in cui ci sono i sacrifici infiniti suoi e di mia madre, che non vale niente per nessuno.
E a dire il vero non lo capisco nemmeno io.
Ma io non ho tempo piu’ per darmi risposte. Io prendo atto e vado avanti e mi rimbocco le maniche.
Lascio questa citta’ che amo e che muore. Io sono così piena di vita e di allegria che non voglio morire.
Mi aveva detto che dovevamo parlarci. Non avra’ avuto tempo, lo capisco. Ci sono emergenze che opprimono. Io non sono un’emergenza, sono una persona un po’ strana, un po’ originale che le scrive lettere e che, stranamente (visto che e’ molto alla moda oggi) non ce l’ha su con lei.
A New York avrei fatto bene. Benissimo. In qualsiasi altro compito lei avesse voluto affidarmi avrei fatto bene. Questo lo so.
Volevo salutarla e farle capire da dove arriva parte di quella mia originalità, testardaggine e incrollabile certezza che e’ meglio essere in pace con sé stessi. Sempre e in ogni caso.
Un abbraccio
Angela
(1997)
Ci sono giorni in cui forse e' cosi' tanta la paura del domani che ti volti indietro per rassicurarti che non ci fosse davvero un appiglio al quale afferrarsi, che non ci fossero davvero ipotesi ragionevoli per cui restare, che quell'umiliazione profonda alla quale ero stata biecamente e continuamente sottoposta non fosse cosi profonda ne' cosi bieca.
Ci sono giorni in cui, con distaccato battito del cuore che sembra non voler nemmeno piu' mutare d'accento al ricordo di cio' che lo stava incartapecorendo, cerco una conferma alla concretezza dell'essere qui. Dell'essere ancora viva e finanche felice. Seppure nella mia frammentata e postdatata esistenza.
E allora ricerco una traccia, uno scritto, una parola che io abbia inciso come sangue sulla pietra per la mia memoria. Per non dimenticare. Ho scritto sempre. Cio' che non so dire, lo scrivo. Anche a chi, forse, non ha piu' occhi per leggere perche' il velo di tristezza che potrebbe appannare lo sguardo renderebbe deboli e disarmati. E chi controlla la vita degli altri attraverso un potere malato e disumano, deve avere paura delle parole che possono essere come l'eco di un mondo in cui una stretta di mano contava ancora come la parola d'onore di una persona che non e' d'onore ma agisce onorevolmente.
E ho trovato questa. Scritta per una di quelle persone che hanno reso ridicoli i miei sogni. Ma non ucciso.
"Mio padre e’ un grande uomo, uno di quei vecchi comunisti che rendono onore al significato piu’ alto e “religioso” di un’ideologia morente che ha dato speranze a milioni di uomini e donne nel mondo.
Mio padre, quando eravamo bambini ci diceva che dovevamo essere i migliori a scuola altrimenti non avremmo potuto reclamare il rispetto dei nostri diritti: ci avrebbero definito comunisti fannulloni
Mio padre aveva messo in cucina uno di quei calendari pieno di foto di bambini africani divorati dalle mosche e dalla fame e se non ci piaceva qualcosa ci indicava le foto e ci diceva di vergognarci.
Mio padre ci raccontava che da ragazzo, con la fame che lo devastava, trovo’ un portafogli pieno di soldi e felice lo porto’ a casa e che mia nonna, vedova, lo porto’ in chiesa al prete perche’ ne trovasse il proprietario. Che non regalo’ nemmeno una mancia.
Mia nonna, racconta mio padre, si era messa attaccata sulla parete la foto di Mussolini e mentre girava povero cibo in un pentolone, insufficiente per tutti, alzava lo sguardo e sputava sulla foto del Duce, bene dritto sulla faccia
Mio nonno, contadino, analfabeta, racconta mio padre, la sera si puliva le scarpe con un panno e andava a scuola serale per imparare a leggere. Aveva sogni piccoli ma li inseguiva.
Mia zia, giovane ragazza, lavorava alle Cotoniere di Fratte e andava a piedi da Cava dei Tirreni tenendo bene a bada chi provava a mancarle di rispetto.
Mio padre e mia madre ci hanno cresciuti bene, ci hanno fatto studiare e io sono stata una bambina e una ragazza felice. E ancora lo sono.
Non hanno mai fatto una vacanza. Ma mio fratello e’ andato all’altro capo del mondo, in Colombia, per adottare un bambino di quattro anni, Cristian, che oggi parla con l’accento romanesco e gioca alla play station come tutti i bambini (o quasi) dell’altra parte del mondo.
Una famiglia come tante la mia. Lo so. Politicamente corretta. Di quelle dimenticate che Santoro non invita alle sue trasmissioni su Napoli.
Mio padre stamattina, per l’ennesima volta, mi ha chiesto se io fossi davvero sicura di aver fatto tutto il possibile per MERITARE un lavoro e se fossi stata abbastanza umile e perbene. Abbiamo litigato. E detesto litigare con mio padre. Lo amo troppo. Ma lui non comprende il perché del mio fallimento, di questa mia quotidianeita’ senza un lavoro che possa definirsi tale e di quel curriculum, in cui ci sono i sacrifici infiniti suoi e di mia madre, che non vale niente per nessuno.
E a dire il vero non lo capisco nemmeno io.
Ma io non ho tempo piu’ per darmi risposte. Io prendo atto e vado avanti e mi rimbocco le maniche.
Lascio questa citta’ che amo e che muore. Io sono così piena di vita e di allegria che non voglio morire.
Mi aveva detto che dovevamo parlarci. Non avra’ avuto tempo, lo capisco. Ci sono emergenze che opprimono. Io non sono un’emergenza, sono una persona un po’ strana, un po’ originale che le scrive lettere e che, stranamente (visto che e’ molto alla moda oggi) non ce l’ha su con lei.
A New York avrei fatto bene. Benissimo. In qualsiasi altro compito lei avesse voluto affidarmi avrei fatto bene. Questo lo so.
Volevo salutarla e farle capire da dove arriva parte di quella mia originalità, testardaggine e incrollabile certezza che e’ meglio essere in pace con sé stessi. Sempre e in ogni caso.
Un abbraccio
Angela
(1997)
Monday, July 12, 2010
sono qui per l'amore....
A New York sono arrivata perche' amo la vita.
Stasera me lo sono ricordato, in una sala con 40 gradi e 26 posizioni yoga (Birkram Yoga): un'ora e mezzo in cui metti alla prova te stesso, il tuo equilibrio e il tuo bilanciamento, sudando come in una sauna....
Avevo provato il Birkram 5 anni fa, durante uno dei miei viaggi a New York. Stasera, attraverso quel sudore che mi rigava il viso, mi sono rivista in strada mentre mandavo un messaggio ad una persona che credevo amica dicendo "la mia vita e' qui ed io verro' a vivere qui perche' qui mi sento felice".
Sono venuta a New York per amore, per amore di quelli avuti e per amore di quellic he restano. E per amore per me.
E allora, fra i ricordi, ho ritrovato questa poesia che scrissi per qualcuno. Che non ho messo mai via.
Dove sei?
Perso nel mio cuore che ti guardò
diverso.
Non rude.
Non freddamente lontano.
Ma dolce.
Generoso.
Ed ora perso.
Come si perde un tram, un treno, un aereo
a lungo attesi
perché ti portassero
altrove.
Perso come una scarpa
che rende inutile l’altra;
perso come la memoria
che ti fa sfuggire il senso della tua vita.
Perso, semplicemente.
Come una banconota
da un buco nella tasca;
che ti serviva a comprare un pò di dolcezza.
Tenuta stretta per non perderla
e persa senza accorgersene;
senza sapere né dove né quando
a volerla ritrovare.
Amore voluto per gioco;
perseguito per sfida;
tenuto per tutto:
mai per abitudine.
Amore amato.
Da entrambi.
Con generosità,
a piene mani.
Amore
di attese e arrivi;
di partenze e di ritorni.
Amore
di piumoni caldi d’ inverno
e lenzuola fresche d’estate.
Amore
di piatti da cucinare
e valigie da svuotare.
Amore
di silenzi e di fughe.
E abbandoni.
Sempre tuoi.
Dove sei ora?
Se proprio devi lasciare il mio cuore
non fare rumore
non acuire il dolore.
Se proprio il tuo vento
non può più soffiare
fra i miei rami forti;
se proprio, pur pensando di amarmi,
non mi ami più,
in questa vita;
se proprio mi lasci andare...
Allora:
per me,
per la mia vita che ti fu cara
e che, pure, non finisce qui;
per quel minuto di felicità,
se c’è stato;
per quel secondo di infinito,
se c’è stato;
allora:
ritrovami nel tuo cuore
e tienimi stretta.
Per una sera ancora,
chiamami amore
come se lo fossi.
Raccontami ciò che la mia vita
è sembrata ai tuoi occhi.
Ritrova la tenerezza del tuo cuore
a un mio gesto
a un mio silenzio
a un mio sorriso.
Ora che mi hai detto
e ripetuto
ciò che NON SONO
e MAI SARO’ per te
(fino a intristirmi,
fino a sfinirmi,
fino a rendermi ciò che non ami);
ora,
per una volta ancora,
amami
come se mi amassi.
Perché io possa ritrovare
i ricordi che ho.
Perché io possa pensare
nel tempo
che ne sia valsa la pena;
perché io possa sapere
che non è stato tutto inutile.
Fammi sentire amata
come da tempo non fai.
Fallo per me.
E un pò anche per te.
Rendi meno doloroso il mio dolore,
rendi meno penoso il tuo andare
rendi meno difficile il mio restare
in questo mondo
senza di te
viva, comunque.
Stasera me lo sono ricordato, in una sala con 40 gradi e 26 posizioni yoga (Birkram Yoga): un'ora e mezzo in cui metti alla prova te stesso, il tuo equilibrio e il tuo bilanciamento, sudando come in una sauna....
Avevo provato il Birkram 5 anni fa, durante uno dei miei viaggi a New York. Stasera, attraverso quel sudore che mi rigava il viso, mi sono rivista in strada mentre mandavo un messaggio ad una persona che credevo amica dicendo "la mia vita e' qui ed io verro' a vivere qui perche' qui mi sento felice".
Sono venuta a New York per amore, per amore di quelli avuti e per amore di quellic he restano. E per amore per me.
E allora, fra i ricordi, ho ritrovato questa poesia che scrissi per qualcuno. Che non ho messo mai via.
Dove sei?
Perso nel mio cuore che ti guardò
diverso.
Non rude.
Non freddamente lontano.
Ma dolce.
Generoso.
Ed ora perso.
Come si perde un tram, un treno, un aereo
a lungo attesi
perché ti portassero
altrove.
Perso come una scarpa
che rende inutile l’altra;
perso come la memoria
che ti fa sfuggire il senso della tua vita.
Perso, semplicemente.
Come una banconota
da un buco nella tasca;
che ti serviva a comprare un pò di dolcezza.
Tenuta stretta per non perderla
e persa senza accorgersene;
senza sapere né dove né quando
a volerla ritrovare.
Amore voluto per gioco;
perseguito per sfida;
tenuto per tutto:
mai per abitudine.
Amore amato.
Da entrambi.
Con generosità,
a piene mani.
Amore
di attese e arrivi;
di partenze e di ritorni.
Amore
di piumoni caldi d’ inverno
e lenzuola fresche d’estate.
Amore
di piatti da cucinare
e valigie da svuotare.
Amore
di silenzi e di fughe.
E abbandoni.
Sempre tuoi.
Dove sei ora?
Se proprio devi lasciare il mio cuore
non fare rumore
non acuire il dolore.
Se proprio il tuo vento
non può più soffiare
fra i miei rami forti;
se proprio, pur pensando di amarmi,
non mi ami più,
in questa vita;
se proprio mi lasci andare...
Allora:
per me,
per la mia vita che ti fu cara
e che, pure, non finisce qui;
per quel minuto di felicità,
se c’è stato;
per quel secondo di infinito,
se c’è stato;
allora:
ritrovami nel tuo cuore
e tienimi stretta.
Per una sera ancora,
chiamami amore
come se lo fossi.
Raccontami ciò che la mia vita
è sembrata ai tuoi occhi.
Ritrova la tenerezza del tuo cuore
a un mio gesto
a un mio silenzio
a un mio sorriso.
Ora che mi hai detto
e ripetuto
ciò che NON SONO
e MAI SARO’ per te
(fino a intristirmi,
fino a sfinirmi,
fino a rendermi ciò che non ami);
ora,
per una volta ancora,
amami
come se mi amassi.
Perché io possa ritrovare
i ricordi che ho.
Perché io possa pensare
nel tempo
che ne sia valsa la pena;
perché io possa sapere
che non è stato tutto inutile.
Fammi sentire amata
come da tempo non fai.
Fallo per me.
E un pò anche per te.
Rendi meno doloroso il mio dolore,
rendi meno penoso il tuo andare
rendi meno difficile il mio restare
in questo mondo
senza di te
viva, comunque.
Sunday, July 11, 2010
Ole'
E cosi ci svegliamo tutti spagnoli... pur di festeggiare un po' anche noi, ancora sotto la "botta" per la cocente disfatta, ci scopriamo amanti de "los hermanos" spagnoli e, infondoinfondo, tutti siamo stati in Spagna, amiamo la paella e la sangria e l'Andalusia pronunciata con la lingua fra i denti. Ibiza, Marbella e Penelope Cruz e Almodovar e Bartem... passando per il Santiago Bernabeu che ci vide campioni e finendo stremati sulla costa Brava. La Spagna in fondo e' un po' Italia, tanto che ci puoi sempre andare in treno o in auto e non c'e' studente universitario che non voglia fare li' l'Erasmus. E in fondo ancora, ma mica tanto, noi siamo mezzi spagnoli, soprattutto noi "sudici" perche' della Spagna siamo stati casa di vacanza e magione di quarantena.
In fondo, l'Olanda la conosciamo solo per le droghe e il sesso libero e nessuno, davvero, ha mai prestato attenzione ai tulipani passeggiando per strada.
Insomma, a cominciare da me, in piena tradizione italiana, abbiamo scelto un carro, ci siamo saliti e lo abbiamo un po' fatto nostro (come gia' successo per il polpo Paul che, nome a parte, e' ovviamente italiano). Qualcuno, dimenticando le cattiverie delle scorse settimane, tirera' fuori che in fondoinfondo, ma mica tanto, c'e' un filo che passa dal 2006 ad oggi e sta proprio in Cannavaro che alza la coppa, va a giocare in Spagna, insegna qualcosa sulla difesa (e qualcosa la dimentica lui) torna a casa e riconsegna la coppa ai suoi ex compagni. Piu' giusto di cosi.... ;)
La verita' che un po' siamo noi italiani a voler essere sempre "nel mezzo" di quelli che vincono e poter dire "beh ma lo sai che in fondo io sono un terzo spagnolo". Un po' e' anche (o almeno lo spero) che abbiamo iniziato a girare di piu' e che allora, dopo l'Italia, riusciamo a fare il tifo, sportivamente per un'altra squadra (Germania a parte che so' troppoooooooo antipatici). Qualcuno lo fa perche' in quella vacanza a Marbella si e' innamorato, qualcuno per l'amico di Madrid che vive al piano di sopra, qualcun altro perche' Penelope e' bella ma sua sorella Monica, mica da buttare alle ortiche.
L'aspetto triste di sentirci oggi tutti spagnoli viene invece dalla motivazione "politica" che sottintende la nostra gioia. Perche' loro, gli spagnoli, quelli che hanno un re e una regina, hanno avuto (come noi) la dittatura, sono tanto cattolici che pure Gesu' si annoia, sono machisti e a volte pochissimo civili (vedi le corride), LORO, dicevo hanno Zapatero che e' arrivato ha tolto le truppe dall'Afghanistan, ha legalizzato i matrimoni gay, si e' attorniato di donne con le palle (anche belle per carita' ma con quella da noi dimenticata cosa che si chiama professionalita') e ha fatto della Spagna, in pieno tempo di recessione, il paese europeo piu' amato persino negli Stati Uniti.
Quindi nell'ordine, a parte i tifosi di calcio, i meridionali nostalgici del re, e i proibizionisti, hanno tifato ieri per la Spagna: i gay, i trans, le donne (quelle di spessore anche belle ma intelligenti e non schiave), i 45enni che sognano di fare carriera politica prima dei 70 anni e senza padrini, i fan di Miguel Bose' e tutti quelli che sanno, fortemente sanno e credono, che le elezioni possono davvero cambiare le cose. Anche quando sembrano immutabili. E che si puo' decidere di rischiare e puntare su qualcun'altro, qualcuno che abbia il carisma del leader e non l'oleosita' dell'unto del signore. E che permettere a tutti di sposarsi se c'e' amore, quello si' che E' AMORE. E che si puo' sognare di vivere in un paese che si risolleva, si mette al pari con i tempi tanto da non appare ridicolo dal di fuori e vergognarsi.
Qualcuno ha tifato Spagna solo perche' lo aveva detto Paulilpolpo. Ma tanti hanno tifato per chi ha avuto il coraggio di diventare migliore. Ancor prima che arrivasse Obama.
In fondo, l'Olanda la conosciamo solo per le droghe e il sesso libero e nessuno, davvero, ha mai prestato attenzione ai tulipani passeggiando per strada.
Insomma, a cominciare da me, in piena tradizione italiana, abbiamo scelto un carro, ci siamo saliti e lo abbiamo un po' fatto nostro (come gia' successo per il polpo Paul che, nome a parte, e' ovviamente italiano). Qualcuno, dimenticando le cattiverie delle scorse settimane, tirera' fuori che in fondoinfondo, ma mica tanto, c'e' un filo che passa dal 2006 ad oggi e sta proprio in Cannavaro che alza la coppa, va a giocare in Spagna, insegna qualcosa sulla difesa (e qualcosa la dimentica lui) torna a casa e riconsegna la coppa ai suoi ex compagni. Piu' giusto di cosi.... ;)
La verita' che un po' siamo noi italiani a voler essere sempre "nel mezzo" di quelli che vincono e poter dire "beh ma lo sai che in fondo io sono un terzo spagnolo". Un po' e' anche (o almeno lo spero) che abbiamo iniziato a girare di piu' e che allora, dopo l'Italia, riusciamo a fare il tifo, sportivamente per un'altra squadra (Germania a parte che so' troppoooooooo antipatici). Qualcuno lo fa perche' in quella vacanza a Marbella si e' innamorato, qualcuno per l'amico di Madrid che vive al piano di sopra, qualcun altro perche' Penelope e' bella ma sua sorella Monica, mica da buttare alle ortiche.
L'aspetto triste di sentirci oggi tutti spagnoli viene invece dalla motivazione "politica" che sottintende la nostra gioia. Perche' loro, gli spagnoli, quelli che hanno un re e una regina, hanno avuto (come noi) la dittatura, sono tanto cattolici che pure Gesu' si annoia, sono machisti e a volte pochissimo civili (vedi le corride), LORO, dicevo hanno Zapatero che e' arrivato ha tolto le truppe dall'Afghanistan, ha legalizzato i matrimoni gay, si e' attorniato di donne con le palle (anche belle per carita' ma con quella da noi dimenticata cosa che si chiama professionalita') e ha fatto della Spagna, in pieno tempo di recessione, il paese europeo piu' amato persino negli Stati Uniti.
Quindi nell'ordine, a parte i tifosi di calcio, i meridionali nostalgici del re, e i proibizionisti, hanno tifato ieri per la Spagna: i gay, i trans, le donne (quelle di spessore anche belle ma intelligenti e non schiave), i 45enni che sognano di fare carriera politica prima dei 70 anni e senza padrini, i fan di Miguel Bose' e tutti quelli che sanno, fortemente sanno e credono, che le elezioni possono davvero cambiare le cose. Anche quando sembrano immutabili. E che si puo' decidere di rischiare e puntare su qualcun'altro, qualcuno che abbia il carisma del leader e non l'oleosita' dell'unto del signore. E che permettere a tutti di sposarsi se c'e' amore, quello si' che E' AMORE. E che si puo' sognare di vivere in un paese che si risolleva, si mette al pari con i tempi tanto da non appare ridicolo dal di fuori e vergognarsi.
Qualcuno ha tifato Spagna solo perche' lo aveva detto Paulilpolpo. Ma tanti hanno tifato per chi ha avuto il coraggio di diventare migliore. Ancor prima che arrivasse Obama.
Tuesday, July 6, 2010
Certe notti
Ci sono notti che ti raccontano il giorno che sta per arrivare: lo vedi, attraverso altre immagini magari, simboliche premonizioni, soprassalti del cuore.
Da quando mi sono trasferita qui ho difficolta' ad addormentarmi... ho sempre l'ansia di perdermi qualcosa o sprecare del tempo. Come se sentissi di non averne abbastanza. E a volte dormo senza sogni. A volte sogno senza esserne felice. Perche' quei sogni sono i ricordi di un passato al quale ho voltato si' le spalle ma, non avendolo fatto abbastanza in fretta, ha avuto il tempo di scalfirmi il cuore, una piccola cicatrice che, pero', se la guardi troppo e' ancora sanguinolenta.
In una di quelle notti che ti preannunciano il giorno, ho sognato che ero persa e dolente e che le persone che erano i volti creduti amici, si voltavano dall'altra parte ignorando del tutto la mia mano disperatamente tesa a chiedere aiuto. Non mi vergogno a dire che ho "mendicato" aiuto. A chi poteva aiutarmi. Se fosse stato utile per rafforzare il proprio ridicolo potere. Cio' che continuo a non perdonare di tutto cio' e' il fatto che io mi sia lasciata manipolare al punto da credere di non valere nulla, di essere un fallimento. Poiche' queste persone, per la quasi totalita' gestiscono potere politico, penso alla situazione del mio paese e non sento piu' di essere io un fallimento. E questo e' gia un buon passo in avanti.
Eppure la notte mi aveva raccontato di una giornata difficile e non per gli oltre 40 gradi che sono "l'emergenza del giorno" (e io stoicamente continuo a non avere l'aria condizionata). Difficile perche' non trascorsa nelle retrovie a rammendarsi i brandelli di mimetica lacerati nelle ultime battaglie, ma al fronte, fucile spianato a respingere i nemici: l'affitto, il lavoro che non c'e', le ansie del futuro, la voglia di rimanere qui ad ogni costo e quell'eta' che ho paura cominci all'improvviso a pesarmi come un macigno fino a sconfiggermi.
L'estratto conto in banca mi ha detto che con un "avanzo di 100$, potevo finalmente pagare l'affitto. Non ancora la bolletta della tv. Non ancora la lavanderia. Assolutamente non ancora il biglietto per l'Italia.
Ma ho imparato a non pensare a quello che manca. Mi concentro su cio' che riesco a fare.
Intanto, nel mio paese, nella mia regione, una pettoruta fringuellina della tv, attende di essere nominata assessore alle politiche giovanili e alle pari opportunita'. E qualcuno prova a convincermi che non e' colpa della sinistra e di quelle femmine che per accaparrarsi un po' di potere, che altrimenti si sarebbero sognate per assenza di meriti, si sono inventate questa minchiata delle pari opportunita', che in altri paesi, vecchia come il mondo, ha educato la societa' a dare potere reale alle donne che ora non hanno piu' bisogno di quella cosa incivile che si chiamano quote. Sapete vero che le quote ci sono per gli immigrati? In Usa come in Italia. Per gli immigrati, che nessuno vuole, e per le femmine, che nessuno vuole. Nel paese dove vivo le donne hanno un potere acquisito e saldo. Ancora ci sono margini di disparita' con gli uomini ma, tanto per fare un esempio che non sia di parte, ricordo tre segretari di stato donne di spessore incontestabile: Madeleine Albright (Clinton), Condoleeze Rice (Bush) e Hillary Clinton (Obama). Da un lato e dall'altro le donne scelte hanno una qualita' e una professionalita' che arriva da lontano tanto da averle portate vicine alla presidenza o averle fatte sopravvivere a un governo atroce come quello di George Bush. In Italia abbiamo le pari opportunita' e la Carfagna e la Binetti, e la Prestigiacomo e altre di cui per pudore (loro) fingo di dimenticare i nomi. Certo che ricordo anche Monica Lewinski ma non mi risulta abbia avuto nessun incarico di Stato. Cosi' come non ne hanno avuto la squillo di Spitzer (che si e' dovuto dimettere) ne' quelle di altri politici che hanno visto le loro carriere rapidamente bruciate dai sex gates.
Ma l'America e' lontana, cantava Lucio Dalla... e allora viva le quote e cio' che ci rifilano come esempio delle femmine al potere, schiave di uomini che le portano per il collare e loro non fingono nemmeno di nasconderlo.
E siccome ci sono notti che ti raccontano come sara' il tuo giorno, oggi, chissa' perche' ho prestato attenzione ad una mail di facebook, quella di un gruppo. Non le leggo mai. Le cancello automaticamente. Questa l'ho aperta. Senza ragione. Anzi, con ragione. Perche' quella mail era arrivata fino a me per dirmi che un mio amico era morto.
Trovo la morte fastidiosa nella sua inopportunita'. Da quando sono lontana pero', lontana dalle persone che amo, mi fa un po' piu' paura.
Ho chiamato i miei per avvertirli. Non rispondevano. Skype, niente, telefono, niente, cellulare , niente. Mi ha preso il panico.
Perche' sebbene un senso di giustizia vorrebbe che poi certe cose capitino alla pettoruta fringuella o alle "amiche" pariopportuniste che mi hanno dato un calcio in bocca quando imploravo aiuto, poi non funziona cosi'... Proprio no.
Quando mi hanno risposto ho scoperto che a casa si consumava un "dramma" (familiare in tutti i sensi) fra il nonno e il nipote per colpa del computer. Per mio padre il computer, mezzo attraverso il quale puo' vedermi quando vuole (o quasi) e' diventato piu' prezioso di tante altre cose. Lo fa toccare con difficolta' e non sapendolo usare bene e' sempre terrorizzato che gli tolgano Skype. Mentre io ero affranta per il mio amico nella realta' un nonno e un nipote litigavano come due bambini di cinque anni. Mi e' presa una malinconia devastante perche' ho pensato che diamo cosi' per scontata la vita, da sprecare tante occasioni per guardarci negli occhi e dirci che ci vogliamo bene. Lo so che e' banale, ma alla fine non lo e'. Alla fine non sappiamo nulla del tempo e dei giorni e delle ore e per questo ne dovremmo gioire e aiutare chi non ne e' capace a farlo.
Ho tanta voglia di tornare ad abbracciare i mie genitori e stare li' a fargli solo sapere che li amo e gli sono grata per ogni tasto che queste dita mai stanche sanno digitare. Gli sono grata per cio' che sono, e io sono in quelle lettere e in quei tasti.
Ci sono notti che ti raccontano il tuo giorno. Al supermercato ho trovato un portafogli, c'erano cosi' tanti soldi che non si chiudeva. L'ho dato alla cassiera e mi sono sentita in pace mentre il mio conto di 16$ mi pesava come fossero 1600$. Mio padre era un bambino, durante la guerra, e aveva tanta fame. Trovo' un portafogli pieno di soldi, lo diede a sua madre, mia nonna Arcangela Vitale, che lo porto in chiesa al parroco. A mio padre, il proprietario non diede nemmeno una ricompensa e lui continuo' ad avere fame. Ho ascoltato questa storia troppe volte da mia zia Elena. Deve essermi rimasta dentro da qualche parte.
Ci sono notti che raccontano il tuo giorno e allora non ti vorresti svegliare perche' hai timore di non arrivare a sera. Ma poi ci arrivi. E hai pagato l'affitto e comprato le patatine. E tornando a casa due cani, Dorothy e Katan (ribattezzato Gaeta') mi hanno festeggiato come se senza di me la vita fosse orribile.
E allora forse questa notte mi raccontera' di un giorno migliore.
Da quando mi sono trasferita qui ho difficolta' ad addormentarmi... ho sempre l'ansia di perdermi qualcosa o sprecare del tempo. Come se sentissi di non averne abbastanza. E a volte dormo senza sogni. A volte sogno senza esserne felice. Perche' quei sogni sono i ricordi di un passato al quale ho voltato si' le spalle ma, non avendolo fatto abbastanza in fretta, ha avuto il tempo di scalfirmi il cuore, una piccola cicatrice che, pero', se la guardi troppo e' ancora sanguinolenta.
In una di quelle notti che ti preannunciano il giorno, ho sognato che ero persa e dolente e che le persone che erano i volti creduti amici, si voltavano dall'altra parte ignorando del tutto la mia mano disperatamente tesa a chiedere aiuto. Non mi vergogno a dire che ho "mendicato" aiuto. A chi poteva aiutarmi. Se fosse stato utile per rafforzare il proprio ridicolo potere. Cio' che continuo a non perdonare di tutto cio' e' il fatto che io mi sia lasciata manipolare al punto da credere di non valere nulla, di essere un fallimento. Poiche' queste persone, per la quasi totalita' gestiscono potere politico, penso alla situazione del mio paese e non sento piu' di essere io un fallimento. E questo e' gia un buon passo in avanti.
Eppure la notte mi aveva raccontato di una giornata difficile e non per gli oltre 40 gradi che sono "l'emergenza del giorno" (e io stoicamente continuo a non avere l'aria condizionata). Difficile perche' non trascorsa nelle retrovie a rammendarsi i brandelli di mimetica lacerati nelle ultime battaglie, ma al fronte, fucile spianato a respingere i nemici: l'affitto, il lavoro che non c'e', le ansie del futuro, la voglia di rimanere qui ad ogni costo e quell'eta' che ho paura cominci all'improvviso a pesarmi come un macigno fino a sconfiggermi.
L'estratto conto in banca mi ha detto che con un "avanzo di 100$, potevo finalmente pagare l'affitto. Non ancora la bolletta della tv. Non ancora la lavanderia. Assolutamente non ancora il biglietto per l'Italia.
Ma ho imparato a non pensare a quello che manca. Mi concentro su cio' che riesco a fare.
Intanto, nel mio paese, nella mia regione, una pettoruta fringuellina della tv, attende di essere nominata assessore alle politiche giovanili e alle pari opportunita'. E qualcuno prova a convincermi che non e' colpa della sinistra e di quelle femmine che per accaparrarsi un po' di potere, che altrimenti si sarebbero sognate per assenza di meriti, si sono inventate questa minchiata delle pari opportunita', che in altri paesi, vecchia come il mondo, ha educato la societa' a dare potere reale alle donne che ora non hanno piu' bisogno di quella cosa incivile che si chiamano quote. Sapete vero che le quote ci sono per gli immigrati? In Usa come in Italia. Per gli immigrati, che nessuno vuole, e per le femmine, che nessuno vuole. Nel paese dove vivo le donne hanno un potere acquisito e saldo. Ancora ci sono margini di disparita' con gli uomini ma, tanto per fare un esempio che non sia di parte, ricordo tre segretari di stato donne di spessore incontestabile: Madeleine Albright (Clinton), Condoleeze Rice (Bush) e Hillary Clinton (Obama). Da un lato e dall'altro le donne scelte hanno una qualita' e una professionalita' che arriva da lontano tanto da averle portate vicine alla presidenza o averle fatte sopravvivere a un governo atroce come quello di George Bush. In Italia abbiamo le pari opportunita' e la Carfagna e la Binetti, e la Prestigiacomo e altre di cui per pudore (loro) fingo di dimenticare i nomi. Certo che ricordo anche Monica Lewinski ma non mi risulta abbia avuto nessun incarico di Stato. Cosi' come non ne hanno avuto la squillo di Spitzer (che si e' dovuto dimettere) ne' quelle di altri politici che hanno visto le loro carriere rapidamente bruciate dai sex gates.
Ma l'America e' lontana, cantava Lucio Dalla... e allora viva le quote e cio' che ci rifilano come esempio delle femmine al potere, schiave di uomini che le portano per il collare e loro non fingono nemmeno di nasconderlo.
E siccome ci sono notti che ti raccontano come sara' il tuo giorno, oggi, chissa' perche' ho prestato attenzione ad una mail di facebook, quella di un gruppo. Non le leggo mai. Le cancello automaticamente. Questa l'ho aperta. Senza ragione. Anzi, con ragione. Perche' quella mail era arrivata fino a me per dirmi che un mio amico era morto.
Trovo la morte fastidiosa nella sua inopportunita'. Da quando sono lontana pero', lontana dalle persone che amo, mi fa un po' piu' paura.
Ho chiamato i miei per avvertirli. Non rispondevano. Skype, niente, telefono, niente, cellulare , niente. Mi ha preso il panico.
Perche' sebbene un senso di giustizia vorrebbe che poi certe cose capitino alla pettoruta fringuella o alle "amiche" pariopportuniste che mi hanno dato un calcio in bocca quando imploravo aiuto, poi non funziona cosi'... Proprio no.
Quando mi hanno risposto ho scoperto che a casa si consumava un "dramma" (familiare in tutti i sensi) fra il nonno e il nipote per colpa del computer. Per mio padre il computer, mezzo attraverso il quale puo' vedermi quando vuole (o quasi) e' diventato piu' prezioso di tante altre cose. Lo fa toccare con difficolta' e non sapendolo usare bene e' sempre terrorizzato che gli tolgano Skype. Mentre io ero affranta per il mio amico nella realta' un nonno e un nipote litigavano come due bambini di cinque anni. Mi e' presa una malinconia devastante perche' ho pensato che diamo cosi' per scontata la vita, da sprecare tante occasioni per guardarci negli occhi e dirci che ci vogliamo bene. Lo so che e' banale, ma alla fine non lo e'. Alla fine non sappiamo nulla del tempo e dei giorni e delle ore e per questo ne dovremmo gioire e aiutare chi non ne e' capace a farlo.
Ho tanta voglia di tornare ad abbracciare i mie genitori e stare li' a fargli solo sapere che li amo e gli sono grata per ogni tasto che queste dita mai stanche sanno digitare. Gli sono grata per cio' che sono, e io sono in quelle lettere e in quei tasti.
Ci sono notti che ti raccontano il tuo giorno. Al supermercato ho trovato un portafogli, c'erano cosi' tanti soldi che non si chiudeva. L'ho dato alla cassiera e mi sono sentita in pace mentre il mio conto di 16$ mi pesava come fossero 1600$. Mio padre era un bambino, durante la guerra, e aveva tanta fame. Trovo' un portafogli pieno di soldi, lo diede a sua madre, mia nonna Arcangela Vitale, che lo porto in chiesa al parroco. A mio padre, il proprietario non diede nemmeno una ricompensa e lui continuo' ad avere fame. Ho ascoltato questa storia troppe volte da mia zia Elena. Deve essermi rimasta dentro da qualche parte.
Ci sono notti che raccontano il tuo giorno e allora non ti vorresti svegliare perche' hai timore di non arrivare a sera. Ma poi ci arrivi. E hai pagato l'affitto e comprato le patatine. E tornando a casa due cani, Dorothy e Katan (ribattezzato Gaeta') mi hanno festeggiato come se senza di me la vita fosse orribile.
E allora forse questa notte mi raccontera' di un giorno migliore.
Monday, July 5, 2010
Citta vuota
Ci sono due momenti dell'anno in cui la citta' si "svuota" dei suoi abitanti: il Ringraziamento e il 4 luglio. Nel giorno del Ringraziamento pero' te ne accorgi di meno, per tutte le luci di Natale che ti fanno sembrare che, comunque, ci sia una gran folla.
Il 4 luglio e' meraviglioso invece. Soprattutto se e' caldo come oggi. Tutti vanno al mare, o al lago o se ne stanno in casa abbracciati all'aria condizionata.
E c'e' silenzio e le strade vuote. Sembra davvero incredibile. Come un film ma guardato al rallentatore. E forse, questo giorno (e il lungo weekend) serve proprio a rallentare il ritmo frenetico delle nostre vite.
Amo questa citta', perche' sento che danziamo allo stesso ritmo, che a volte e' un rock, a volte uno shake, a volte un tango, a volte un mambo, talvolta un fantastico blues.
Peccato che da domani ritornino tutti qui. Qualche altro giorno di quiete assoluta mi avrebbe fatto bene. Quasi quasi, scappo al mare.
Il 4 luglio e' meraviglioso invece. Soprattutto se e' caldo come oggi. Tutti vanno al mare, o al lago o se ne stanno in casa abbracciati all'aria condizionata.
E c'e' silenzio e le strade vuote. Sembra davvero incredibile. Come un film ma guardato al rallentatore. E forse, questo giorno (e il lungo weekend) serve proprio a rallentare il ritmo frenetico delle nostre vite.
Amo questa citta', perche' sento che danziamo allo stesso ritmo, che a volte e' un rock, a volte uno shake, a volte un tango, a volte un mambo, talvolta un fantastico blues.
Peccato che da domani ritornino tutti qui. Qualche altro giorno di quiete assoluta mi avrebbe fatto bene. Quasi quasi, scappo al mare.
Friday, July 2, 2010
i miei ragazzi
Quando li vidi la prima volta, ero terrorizzata. Oggi, ogni volta che nella mia mente ripassano i loro volti e i loro sorrisi, un pezzo di cuore si intenerisce tanto che ho paura si sciolga e che lo perda per sempre... Ma cio' che conta nella vita non si perde mai. E il cuore, l'anima o semplicemnete quell'angolo di memoria con su l'etichetta "sentimenti", riesce ad accogliere tanto di cio' che, per dirla con Ligabue, non riusciamo, fortunatamente, a mettere via
In una delle mie tante vite, vissute sempre in bilico fra il senso del dovere e l'obbligo della felicita', sono stata anche un' insegnate di scuola superiore. Insegnavo Francese o Tedesco. E' successo tutto in una stagione, anzi due. Poi i meccanismi della scuola, troppo complicati per una mente disordinata come la mia, mi hanno spinto ad autoescludermi. Non ho recriminazioni questa volta. Forse ne ho ;) ma non e' per questo che scrivo. La prima supplenza e' stata all'Istituto Alberghiero di Anacapri. Non sapevo nemmeno come si tenesse un registro. A me sembrava che solo il giorno prima, io fossi un nome in quel registro ed ora ero dall'altro lato. E non credo nemmeno mi piacesse. Ma come sempre, "rifiutare un lavoro" mi sembrava un peccato mortale. E quindi, aliscafo ogni mattina alle 7 e poi fin lassu', ad Anacapri, in un'aula da dove vedevo il mare e mi veniva da pensare che fosse uno scempio starsene seduti li' a studiare. Sotto i vestiti indossavo quasi sempre il costume, per un bagno prima di andar via. I miei ragazzi mi guardarono come una strana, avevo una testa di treccine e corallini, frutto del mio viaggio in Messico, ero piu' bassa anche del piu' piccolo fra loro e soprattutto si capiva che non ne sapevo granche'. Eppure diventai la loro "professoressa preferita". Ero severa e li facevo studiare e mettevo brutti voti ma parlavo con loro e credo sentissero che li adoravo. Adoravo le loro vite incerte e sorridenti, le loro baldanze impaurite, la loro unicita' camuffata nello stringersi a gruppo. Ogni giorno me ne andavo piu' ricca di qualcosa. Tranne che di soldi. Quando facevamo compito in classe gli mettevo la musica in sottofondo e loro andavano a mille. Quando arrivo' la notizia che non mi avrebbero riconfermato ci fu, fra noi, un saluto triste come l'ultimo giorno di vacanza al mare, quando d'improvviso viene a piovere e un ombrellone se ne vola via per il vento e la sabbia ti graffia gli occhi. Gli scrissi una lettera. La tennero in bacheca a lungo. Io li tenni nelle mie giornate a lungo.
Ma quella era Capri e fu come una vacanza, sebbene meravigliosa. Fu come quando andai in Spagna. In Andalusia, da sola.
Poi entrai in un'altra classe. Una quinta. Sempre Istituto Alberghiero ma ad Agnano. Arrivai con il mio motorino scassato e la mia noia per una vita che girava storta. La prima parte della giornata in effetti era stata in una prima. Mi avevano spossato. Era una classe numerosa e difficile. Che ho amato ma non come i miei ragazzi.
I miei ragazzi, quando entrai, continuarono a chiacchierare fra loro, nemmeno alzarono lo sguardo. Mi ci vollero un po' di manate sulla cattedra e di "silenzio" per far si che si accorgessero di me. Ci vollero diverse lezioni perche' diventassero i miei ragazzi. Arrivavano quasi tutti dai Quartieri Spagnoli o da Secondigliano/Scampia. Qualcuno da Forcella. Avevano occhi che ti raccontavano la bellezza guardata attraverso la morte, la desolazione e lo scempio. I loro occhi erano magici. E mi fissavano con attenzione. Non potevo barare con loro. Per non farli uscire in continuazione gli diedi il permesso di fumare in classe ma non di usare il cellulare. Un giorno arrivai in classe e un collega era ancora li', prima di andarsene mi disse "andiamo a prendere un caffe' insieme qualche volta". Appena lui usci, i miei ragazzi mi guardarono e poi uno di loro, che era uno dei piu' "sfrontati" mi disse "professore' voi non ci dovete andare a prendere il caffe' con lui, perche' quello non vuole fare le cose serie. Il caffe', quando lo volete, ve lo paghiamo noi". In quel giorno diventarono i miei ragazzi. Studiavano, mi ascoltavano e parlavamo. Parlavamo di politica, della vita e del loro vivere in quartieri dove "quando torniamo da scuola, non usciamo piu' perche' fuori si spaccia solo droga". Loro non avevano letto o scritto Gomorra. Loro la vivevano.
Eppure nessuno avrebbe dato la vita per loro. Nessuno l'ha data e nessuno ha mai neppure conosciuto i loro volti che io ho amato ed amo ancora.
"Professore', mannaggia a Berlusconi". Mi dicevano per farmi ridere. Incredibile, Berlusconi era gia' li e gia' faceva danni.
Una volta arrivai in ritardo in classe e loro iniziarono a fare casino tanto che arrivo' il preside. Appena entrai, il preside mi fece una di quelle cazziate storiche. Io pensavo di sprofondare (e sotto sotto volevo pure mandarlo a quel paese). Quando il preside usci' ci fu silenzio. Li guardai negli occhi e non dissi niente e studiammo tedesco senza dire una parola. Quando entrai in classe, la volta dopo, li vidi dall'esterno, insolitamente seduti in ordine e silenziosi. Appena misi piede dentro la classe, scattarono in piedi e in coro mi dissero "Entschuldigung" ("Scusi") e sulla cattedra c'era il piu' bel mazzo di fiori che abbia mai ricevuto. Trattenere le lacrime fu difficile. I miei ragazzi mi fermavano nei corridoi per parlarmi delle loro fidanzate, dei loro problemi e io li ascoltavo e li adoravo ed ero grata alla vita. Se non fossi entrata in quella classe quei ragazzi, i miei ragazzi, sarebbero stati, ai miei occhi prevenuti e miopi, solo dei bulletti di quartiere, dai quali guardarsi e proteggersi.
I miei ragazzi ebbero l'audacia di raccontarmi le loro paure, i loro dubbi e i loro sogni. Ebbero l'audacia di mostrarmi le loro lacrime quando un loro amico mori' troppo presto, come spesso si moure in certi quartieri. I miei ragazzi ebbero l'audacia di mostrarmi la loro ansia durante l'esame di stato. Fui con loro ogni giorno. i membri della commissione mi guardavano chiedendosi chi fossi. Li incoraggiavo e li calmavo e seguivo i loro esami con un ansia e con occhi che proiettavano altre scene di tempo prima, all'Istituto Antonio Genovesi di Salerno.
I miei ragazzi hanno fatto fatica a convincersi a chiamarmi Angela e non piu' "professore' " dopo di allora e con alcuni siamo ancora in contatto e so un po' delle loro vite e ne sono fiera. "Quando e' morto mio padre, mi disse un giorno uno di loro, i boss del quartiere vennero da me e mi dissero - tu ora non ti devi preoccupare, perche' a te ci pensiamo noi - ma io ho continuato a venire a scuola e sono felice di fare il cameriere e poter tornare a casa con il cuore in pace".
I miei ragazzi hanno vissuto e spesso vivono nell'inferno e ne sono usciti illesi perche' si puo'. Perche' le famiglie sono rocce e la scuola e' la strada per attraversare l'oscurita'. La scuola puo' essere la lampada anche se i piedi li metti tu.
I miei ragazzi non li conosce nessuno. Percio' perdonatemi se dico che loro sono si' che sono i miei eroi. Loro che vivono e hanno vissuto all'inferno e sono sopravvissuti e sanno sorridere.
I miei ragazzi non vanno in tv, non sono famosi e non sono simboli di niente e nessuno. E nessuno se ne fotte di loro. Diciamolo.
Ma i miei ragazzi (e quelli come loro) sono la speranza, L'unica. E tutto il resto sono chiacchiere.
Mentre cammino, a volte sopraffatta dal peso delle mie incertezze, talvolta logorata dalla tristezza o avvolta in una coperta di paure, ripenso ai loro occhi. Se loro ce l'hanno fatta io posso farcela. Loro mi hanno insegnato questo. E nessuno lo sa e nessuno li onora.
Volevo farvi conoscere i miei ragazzi. Occhi belli e sorrisi larghi, come solo chi vede la morte e lo scempio ogni giorno, puo' avere. Perche' se non abbassi lo sguardo, oltre tutta quella morte e quello scempio, vedrai la bellezza e non ti ferira' gli occhi ma te li rendera' come stelle in una notte d'estate.
I miei ragazzi sono i miei occhi nella notte scura.
In una delle mie tante vite, vissute sempre in bilico fra il senso del dovere e l'obbligo della felicita', sono stata anche un' insegnate di scuola superiore. Insegnavo Francese o Tedesco. E' successo tutto in una stagione, anzi due. Poi i meccanismi della scuola, troppo complicati per una mente disordinata come la mia, mi hanno spinto ad autoescludermi. Non ho recriminazioni questa volta. Forse ne ho ;) ma non e' per questo che scrivo. La prima supplenza e' stata all'Istituto Alberghiero di Anacapri. Non sapevo nemmeno come si tenesse un registro. A me sembrava che solo il giorno prima, io fossi un nome in quel registro ed ora ero dall'altro lato. E non credo nemmeno mi piacesse. Ma come sempre, "rifiutare un lavoro" mi sembrava un peccato mortale. E quindi, aliscafo ogni mattina alle 7 e poi fin lassu', ad Anacapri, in un'aula da dove vedevo il mare e mi veniva da pensare che fosse uno scempio starsene seduti li' a studiare. Sotto i vestiti indossavo quasi sempre il costume, per un bagno prima di andar via. I miei ragazzi mi guardarono come una strana, avevo una testa di treccine e corallini, frutto del mio viaggio in Messico, ero piu' bassa anche del piu' piccolo fra loro e soprattutto si capiva che non ne sapevo granche'. Eppure diventai la loro "professoressa preferita". Ero severa e li facevo studiare e mettevo brutti voti ma parlavo con loro e credo sentissero che li adoravo. Adoravo le loro vite incerte e sorridenti, le loro baldanze impaurite, la loro unicita' camuffata nello stringersi a gruppo. Ogni giorno me ne andavo piu' ricca di qualcosa. Tranne che di soldi. Quando facevamo compito in classe gli mettevo la musica in sottofondo e loro andavano a mille. Quando arrivo' la notizia che non mi avrebbero riconfermato ci fu, fra noi, un saluto triste come l'ultimo giorno di vacanza al mare, quando d'improvviso viene a piovere e un ombrellone se ne vola via per il vento e la sabbia ti graffia gli occhi. Gli scrissi una lettera. La tennero in bacheca a lungo. Io li tenni nelle mie giornate a lungo.
Ma quella era Capri e fu come una vacanza, sebbene meravigliosa. Fu come quando andai in Spagna. In Andalusia, da sola.
Poi entrai in un'altra classe. Una quinta. Sempre Istituto Alberghiero ma ad Agnano. Arrivai con il mio motorino scassato e la mia noia per una vita che girava storta. La prima parte della giornata in effetti era stata in una prima. Mi avevano spossato. Era una classe numerosa e difficile. Che ho amato ma non come i miei ragazzi.
I miei ragazzi, quando entrai, continuarono a chiacchierare fra loro, nemmeno alzarono lo sguardo. Mi ci vollero un po' di manate sulla cattedra e di "silenzio" per far si che si accorgessero di me. Ci vollero diverse lezioni perche' diventassero i miei ragazzi. Arrivavano quasi tutti dai Quartieri Spagnoli o da Secondigliano/Scampia. Qualcuno da Forcella. Avevano occhi che ti raccontavano la bellezza guardata attraverso la morte, la desolazione e lo scempio. I loro occhi erano magici. E mi fissavano con attenzione. Non potevo barare con loro. Per non farli uscire in continuazione gli diedi il permesso di fumare in classe ma non di usare il cellulare. Un giorno arrivai in classe e un collega era ancora li', prima di andarsene mi disse "andiamo a prendere un caffe' insieme qualche volta". Appena lui usci, i miei ragazzi mi guardarono e poi uno di loro, che era uno dei piu' "sfrontati" mi disse "professore' voi non ci dovete andare a prendere il caffe' con lui, perche' quello non vuole fare le cose serie. Il caffe', quando lo volete, ve lo paghiamo noi". In quel giorno diventarono i miei ragazzi. Studiavano, mi ascoltavano e parlavamo. Parlavamo di politica, della vita e del loro vivere in quartieri dove "quando torniamo da scuola, non usciamo piu' perche' fuori si spaccia solo droga". Loro non avevano letto o scritto Gomorra. Loro la vivevano.
Eppure nessuno avrebbe dato la vita per loro. Nessuno l'ha data e nessuno ha mai neppure conosciuto i loro volti che io ho amato ed amo ancora.
"Professore', mannaggia a Berlusconi". Mi dicevano per farmi ridere. Incredibile, Berlusconi era gia' li e gia' faceva danni.
Una volta arrivai in ritardo in classe e loro iniziarono a fare casino tanto che arrivo' il preside. Appena entrai, il preside mi fece una di quelle cazziate storiche. Io pensavo di sprofondare (e sotto sotto volevo pure mandarlo a quel paese). Quando il preside usci' ci fu silenzio. Li guardai negli occhi e non dissi niente e studiammo tedesco senza dire una parola. Quando entrai in classe, la volta dopo, li vidi dall'esterno, insolitamente seduti in ordine e silenziosi. Appena misi piede dentro la classe, scattarono in piedi e in coro mi dissero "Entschuldigung" ("Scusi") e sulla cattedra c'era il piu' bel mazzo di fiori che abbia mai ricevuto. Trattenere le lacrime fu difficile. I miei ragazzi mi fermavano nei corridoi per parlarmi delle loro fidanzate, dei loro problemi e io li ascoltavo e li adoravo ed ero grata alla vita. Se non fossi entrata in quella classe quei ragazzi, i miei ragazzi, sarebbero stati, ai miei occhi prevenuti e miopi, solo dei bulletti di quartiere, dai quali guardarsi e proteggersi.
I miei ragazzi ebbero l'audacia di raccontarmi le loro paure, i loro dubbi e i loro sogni. Ebbero l'audacia di mostrarmi le loro lacrime quando un loro amico mori' troppo presto, come spesso si moure in certi quartieri. I miei ragazzi ebbero l'audacia di mostrarmi la loro ansia durante l'esame di stato. Fui con loro ogni giorno. i membri della commissione mi guardavano chiedendosi chi fossi. Li incoraggiavo e li calmavo e seguivo i loro esami con un ansia e con occhi che proiettavano altre scene di tempo prima, all'Istituto Antonio Genovesi di Salerno.
I miei ragazzi hanno fatto fatica a convincersi a chiamarmi Angela e non piu' "professore' " dopo di allora e con alcuni siamo ancora in contatto e so un po' delle loro vite e ne sono fiera. "Quando e' morto mio padre, mi disse un giorno uno di loro, i boss del quartiere vennero da me e mi dissero - tu ora non ti devi preoccupare, perche' a te ci pensiamo noi - ma io ho continuato a venire a scuola e sono felice di fare il cameriere e poter tornare a casa con il cuore in pace".
I miei ragazzi hanno vissuto e spesso vivono nell'inferno e ne sono usciti illesi perche' si puo'. Perche' le famiglie sono rocce e la scuola e' la strada per attraversare l'oscurita'. La scuola puo' essere la lampada anche se i piedi li metti tu.
I miei ragazzi non li conosce nessuno. Percio' perdonatemi se dico che loro sono si' che sono i miei eroi. Loro che vivono e hanno vissuto all'inferno e sono sopravvissuti e sanno sorridere.
I miei ragazzi non vanno in tv, non sono famosi e non sono simboli di niente e nessuno. E nessuno se ne fotte di loro. Diciamolo.
Ma i miei ragazzi (e quelli come loro) sono la speranza, L'unica. E tutto il resto sono chiacchiere.
Mentre cammino, a volte sopraffatta dal peso delle mie incertezze, talvolta logorata dalla tristezza o avvolta in una coperta di paure, ripenso ai loro occhi. Se loro ce l'hanno fatta io posso farcela. Loro mi hanno insegnato questo. E nessuno lo sa e nessuno li onora.
Volevo farvi conoscere i miei ragazzi. Occhi belli e sorrisi larghi, come solo chi vede la morte e lo scempio ogni giorno, puo' avere. Perche' se non abbassi lo sguardo, oltre tutta quella morte e quello scempio, vedrai la bellezza e non ti ferira' gli occhi ma te li rendera' come stelle in una notte d'estate.
I miei ragazzi sono i miei occhi nella notte scura.
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