Ieri lavoravo a raccogliere appunti per questo mio post pubblicato su Wired questa mattina e - allora - mi sono dilungata a fare un po' il punto della situazione. Con qualche informazione in piu'.
La prima volta
che misi piedi a Ellis Island mi ero trasferita qui da poco. Sentivo ancora
fortissimo il peso della solitudine e della lontananza. Nel corso di una visita
guidata organizzata per i giornalisti stranieri, vissi, passo dopo passo, le
tappe tipiche di un immigrato che sbarcava qui: le attese, la visita medica,
quella specie di uncinetto che usavano per controllare gli occhi, le panche
dove ci si sedeva prima di rispondere all’interrogatorio: 29 domande in tutto,
sempre le stesse. E poi quella scala, larga, con un corrimano a dividerla in
due metà: alla fine di ciascuna, un corridoio, uno per chi andava in New
Jersey, uno per chi andava a New York. Non ho mai sentito parlare tanto di
Ellis Island come in questi giorni, come dal momento dopo in cui un migliaio di
“poveri cristi” ha perso la vita, non su una croce di legno, ma nella
solitudine del mare, catapultati da una nave bestiame, riempita fino
all’inverosimile. Ellis Island e gli italiani immigranti. Ellis Island e quelle
foto che raccontano un dolore che è sempre lo stesso, a distanza di secoli,
nonostante il colore della pelle diverso: il dolore di attraversare la morte,
per poter vivere. Le foto delle navi che arrivavano a Ellis Island sono
amaramente simili ai barconi che feriscono quotidianamente il nostro
Mediterraneo: barche piene di occhi. Occhi dolenti ai quali è già stato tolto
tutto e non resta altro che quel lancio di dadi, quella partita d’azzardo. Per
una strana ragione, Ellis Island è diventata il simbolo di un contrasto feroce
in questi giorni; il luogo geografico lontano che segna la separazione fra il
razzismo e il non razzismo. Come se fosse l’unico attraverso il quale il dramma
italiano sia passato lasciando pezzi di cognome e identità mai più ricostruite.
La “diaspora italiana”, infatti, non è stata solo Ellis Island. Dal 1861 al
1985, 29 milioni e 36mila italiani emigrarono in altri paesi dell’Europa e in
Nord America, Sud America, Nord Africa, Africa dell’Est, Australia e Nuova
Zelanda. Poco più di 10 milioni di questi fecero ritorno in patria, mentre
quasi 19 milioni restarono all’estero. Il numero totale degli italiani nel
mondo è di circa 70 milioni di persone. Non fu solo l’America, dunque. Non fu
solo Ellis Island a diventare testimone del nostro dramma di poveri, affamati,
diseredati alla ricerca di una seconda opportunità. Fu il mondo intero, inclusi
quei posti da dove oggi arrivano coloro che, troppo spesso, il mare divora.
Eppure è Ellis Island ad essere diventato il “pomo della discordia”. Forse
perchè qui, il museo dell’immigrazione permette di preservare una memoria che,
altrimenti, si andrebbe perdendo. Una memoria che include la “selezione”
rigorosa alla quale, quei poveri cristi, venivano sottoposti. Vale la pena,
però, rivedere un po’ il racconto che di questo luogo si fa, per sostenere
l’ipotesi che anche noi abbiamo subito la nostra quota di umiliazione. Senz’altro
non c’erano tappeti rossi e fanfare ad accogliere chi arrivava a Ellis Island
ma, prima di tutto, medici frettolosi, pronti a rimandare a casa chi appariva
malato o non in grado di badare a se’ stesso. Eppure il tempo trascorso
sull’isola, prima di poter procedere il proprio viaggio verso “il sogno
americano”, era compreso, in media, fra le
2 e le 5 ore. Tutti dovevano dimostrare di possedere una somma di denaro
di non meno di 18 dollari, per poter essere ammessi e solo il 2% in totale, si
vide rifiutare l’accesso. Molti degli italiani arrivati qui, o i loro figli,
divennero famosi: da Fiorello La Guardia a Mario Cuomo, da Frank Sinatra a
Bruce Springsteen. Forse per questo, Ellis Island sembra, nella nostra fragile
memoria, l’unico avamposto che la nostra tragedia umana ha dovuto superare.
Quel pomeriggio, dopo la visita a Ellis Island, presi un caffè con un’amica che
vive qui da molti anni in clandestinità. E’ giovane, allegra tranne quando mi
dice che essere clandestina significa non poter mai tornare in Italia, nemmeno
per un’emergenza. A New York, però lavora e ha una vita “regolare”. Lei non è
passata da Ellis Island, ormai chiusa, e non è arrivata su un barcone ma è
clandestina esattamente come ciascuno di quei poveri cristi morti in mare, sui
quali tanta “filosofia” si sta facendo. E allora sfatiamo qualche “mito” che
sento ripetere da giorni: 1) noi non eravamo migranti. Lo siamo. 2) noi non
abbiamo arricchito l’America (o l’Argentina o l’Australia) se non nella misura
in cui questi paesi ci hanno lasciato lo spazio di farlo. Noi non lasciamo
nessuno spazio a nessuno. 3) nessuno paragona l’Italia agli Stati Uniti: gli
immigrati, infatti, si fermavano nella quasi totalità a New York o si
“allungavano” in New Jersey o in Pennsylvania. Al massimo il raffronto va fatto
fra una nazione europea e tre stati di un paese. 4) noi non eravamo diversi:
scapavamo dalla disperazione. Di diverso avevamo solo la pelle bianca, ma
abbiamo vergogna ad ammetterlo. 5) moltissimi hanno lavorato duramente,
sottopagati e sfruttati, come gli immigrati che arrivano in Italia. In più
abbiamo portato con noi il crimine organizzato, quella mafia, camorra,
ndrangheta che oggi guadagna sul “commercio” dei clandestini. 6) noi non ci siamo integrati più degli
altri: ancora oggi ci sono immigrati italiani che parlano poco o niente
l’inglese e frequentano solo ed esclusivamente persone della propria
etnia. Non a caso qui c’è una “lingua”,
il broccolino, che era l’italiano/inglese inventato dai nostri antenati. 7)
integrarsi, poi, non significa diventare uguali. In una terra laica e liberale,
gli immigrati italiani hanno conservato intatte le proprie tradizioni, anche le
peggiori: la festa di San Gennaro, da sempre, è infatti controllata dalle
famiglie mafiose tanto che, regolarmente, i sindaci di New York, anche di
origine italiana, la disertano. 8) sono circa 400mila i turisti italiani che
visitano New York ogni anno: insieme all’ESTA proporrei una visita obbligatoria
a Ellis Island. Perchè la memoria deve essere basata su fatti concreti e non su
una letteratura che ci costruiamo ad hoc, per provare a rendere più dignitosa
quella che possiamo chiamare solo miseria umana.