Me lo sono trovato all'improvviso sullo schermo della tv, mentre cercavo altro.
Come me lo trovai all'improvviso, come solo in una perfetta sceneggiatura potrebbe accadere, sul piccolo schermo del volo Napoli - New York che mi portava qui, in America, a casa.
Mi avevano detto che Dorothy era morta. Viaggiai per dieci ore con questo peso nel cuore. Macigno.
Un macigno che pesava sulle paure, le ceneri di una vecchia vita e i dubbi e le incertezze di una che mi ero scelta senza neppure saperne la forma
Sapevo solo che aveva l'immagine di New York.
Per la prima volta dovetti ricorrere ad un tranquillante che mi consenti' non di dormire o di rilassarmi ma almeno di evitare di avere una crisi di nervi e spaccare la testa a tutto l'equipaggio della Eurofly, quei maledetti che - per divertirsi, evidentemente - mi avevano detto che la mia bimba era morta.
Non ho mai più' viaggiato Eurofly.
Quando Chris Gardner, chiuso nel bagno, abbracciando forte suo figlio, piange disperato perché' non ha più' neppure un posto dove dormire, piansi anche io talmente forte che la gola mi fece male per giorni. Sarei finita anche io così. Lo sapevo. Senza neppur abbracciare forte la mia Dorothy che forse stava morendo o era già' morta davvero. Per colpa mia. Per quell'azzardo di voler cercare la felicita'. Nemmeno. Per quell'aver osato cercare disperatamente il senso della vita che mi aveva abbandonato.
Quando finalmente ritrovai la sua gabbia all'aeroporto (che era stata abbandonata in barba ad ogni regolamento aeroportuale) mi gettai sulle ginocchia, per terra e singhiozzando abbracciai Dorothy che lancio' un urlo terrificante e provo' a mettersi in piedi senza riuscirci. Corsero i poliziotti che di fronte a quella scena restarono senza parole e mi aiutarono e sostennero, accompagnandomi all'uscita senza fare più nemmeno una fila.
In sette anni ho ripensato tanto e spesso a quel film: ai miei momenti di corsa, di ansia, di disperazione, di solitudine, di dubbio, di prostrazione. E a quella scena finale. Di quella gioia che non puoi urlare ma che ti porta per strada, fra migliaia di persone, ad alzare le mani al cielo e applaudire. Te stesso.
Spesso, mentre ero al limite della resistenza umana, qualcuno mi ha stretto la mano e mi ha detto "vogliamo te, perché sei la migliore". Non importa per cosa. Ma io. In ciascuno di quei momenti sono andata in un supermercato e mi sono concessa il lusso di qualcosa da mangiare che non potevo permettermi. Per me e per Dorothy.
Quel film e' il mio film perche' quelle scene sono esattamente quella ferita che mi ha scavato dentro e che mi attraversa da capo a piedi e che poteva sfigurarmi e invece mi ha reso migliore. Mi ha reso coraggiosa.
Come sempre ho pianto guardando quel film. La differenza ieri sera, che racconta di una felicita' un po' più stabile, e' che dopo ho guardato "Il diavolo veste Prada" e ho deciso che - fanculo il ghiaccio - oggi sarei uscita con i tacchi alti. Perché questa e' New York ed io ne sono parte.
Come me lo trovai all'improvviso, come solo in una perfetta sceneggiatura potrebbe accadere, sul piccolo schermo del volo Napoli - New York che mi portava qui, in America, a casa.
Mi avevano detto che Dorothy era morta. Viaggiai per dieci ore con questo peso nel cuore. Macigno.
Un macigno che pesava sulle paure, le ceneri di una vecchia vita e i dubbi e le incertezze di una che mi ero scelta senza neppure saperne la forma
Sapevo solo che aveva l'immagine di New York.
Per la prima volta dovetti ricorrere ad un tranquillante che mi consenti' non di dormire o di rilassarmi ma almeno di evitare di avere una crisi di nervi e spaccare la testa a tutto l'equipaggio della Eurofly, quei maledetti che - per divertirsi, evidentemente - mi avevano detto che la mia bimba era morta.
Non ho mai più' viaggiato Eurofly.
Quando Chris Gardner, chiuso nel bagno, abbracciando forte suo figlio, piange disperato perché' non ha più' neppure un posto dove dormire, piansi anche io talmente forte che la gola mi fece male per giorni. Sarei finita anche io così. Lo sapevo. Senza neppur abbracciare forte la mia Dorothy che forse stava morendo o era già' morta davvero. Per colpa mia. Per quell'azzardo di voler cercare la felicita'. Nemmeno. Per quell'aver osato cercare disperatamente il senso della vita che mi aveva abbandonato.
Quando finalmente ritrovai la sua gabbia all'aeroporto (che era stata abbandonata in barba ad ogni regolamento aeroportuale) mi gettai sulle ginocchia, per terra e singhiozzando abbracciai Dorothy che lancio' un urlo terrificante e provo' a mettersi in piedi senza riuscirci. Corsero i poliziotti che di fronte a quella scena restarono senza parole e mi aiutarono e sostennero, accompagnandomi all'uscita senza fare più nemmeno una fila.
In sette anni ho ripensato tanto e spesso a quel film: ai miei momenti di corsa, di ansia, di disperazione, di solitudine, di dubbio, di prostrazione. E a quella scena finale. Di quella gioia che non puoi urlare ma che ti porta per strada, fra migliaia di persone, ad alzare le mani al cielo e applaudire. Te stesso.
Spesso, mentre ero al limite della resistenza umana, qualcuno mi ha stretto la mano e mi ha detto "vogliamo te, perché sei la migliore". Non importa per cosa. Ma io. In ciascuno di quei momenti sono andata in un supermercato e mi sono concessa il lusso di qualcosa da mangiare che non potevo permettermi. Per me e per Dorothy.
Quel film e' il mio film perche' quelle scene sono esattamente quella ferita che mi ha scavato dentro e che mi attraversa da capo a piedi e che poteva sfigurarmi e invece mi ha reso migliore. Mi ha reso coraggiosa.
Come sempre ho pianto guardando quel film. La differenza ieri sera, che racconta di una felicita' un po' più stabile, e' che dopo ho guardato "Il diavolo veste Prada" e ho deciso che - fanculo il ghiaccio - oggi sarei uscita con i tacchi alti. Perché questa e' New York ed io ne sono parte.
Da un film dell'orrore ad una pellicola a lieto fine.
ReplyDeleteLa ricerca della felicità è la missione che ciascuna persona cerca di perseguire fin dall'età della ragione. C'è chi ci riesce e chi fatica più del solito. Ma anche chi non è mai felice. Poi ci sono quelli che sono in realtà felici ma non sanno di esserlo. Ecco, cara Angela, io penso che tu hai scoperto e fatto tuo il segreto della felicità. Anche io lo conosco, me lo ha insegnato uno scrittore brasiliano. Ma di questo te ne parlerò a voce la prossima volta che ci vediamo.
P.s.: è sempre bello leggerti e come di consueto traggo spunti interessantissimi che faccio miei.
Leonardo